domenica 12 dicembre 2010

Ecco l'Italia vista da noi inglesi

«Dio salvi l'Italia e gli italiani». Guy Dinmore, corrispondente del Financial Times per l'Italia, è un cronista che conosce bene il nostro Paese. Ha lavorato in Cina e Kosovo, Ruanda e Iran. Da un giornale che è la bibbia economica dei liberal, continua a fare domande a cui spesso non riceve risposta: «Il vostro premier non si è mai fatto intervistare». Ha seguito Berlusconi nell'ultima campagna elettorale. «Gli ingredienti del suo successo? Soldi, media , furbizia, sinistra in crisi».
di GIORGIO PISANO

Tre anni di permanenza a Roma sono bastati per mettere a fuoco l'Italia e gli italiani. «Società conservatrice la vostra, fatta comunque di gente tollerante. Forse troppo tollerante. Quando c'è lavoro, ma non ne vedo molto in giro, ci date dentro, non siete scansafatiche». Segue anche un difettuccio che gli è capitato di notare abbastanza spesso: «Avete la tendenza a dare la colpa agli altri».

Guy Dinmore, corrispondente del Financial Times (semplicemente Ft per gli addetti ai lavori) non adopera un italiano da accademia ma nei momenti-chiave manda il cervello in pit stop in attesa che gli suggerisca la parola giusta. Per esempio quando gli si chiede cosa pensa l'opinione pubblica britannica del premier Silvio Berlusconi. «How do you say clown?», domanda all'interprete. Pagliaccio, gli dicono. E lui dopo una pettinata con le dita sui capelli biondo-grigi conferma imbarazzato: «Pagliaccio».

Cinquantadue anni, tre figli, gallese, Guy è un cronista della vecchia (preistorica) guardia: non vive incollato al telefono, va per strada, soprattutto fa domande. Domande vere, s'intende. Sta al Ft dal '97. Prima di approdare dalle nostre parti ha lavorato per l'agenzia Reuters a Pechino (da dove è stato espulso), in Kosovo (quando cadevano le bombe sinceramente democratiche del governo di centrosinistra), in Ruanda, in Iran e negli Stati Uniti. Ha vinto il premio Foreign press freedom, che non è esattamente una coppetta di paese.

Durante i giorni caldi del confronto sindacati-Marchionne, ha chiesto alla Fiat di visitare lo stabilimento di Pomigliano d'Arco. «La fabbrica è chiusa», gli hanno risposto. Lui, tra vedere e non vedere, ci è andato lo stesso. E siccome non è un suddito britannico per caso, ha educatamente bussato al cancello d'ingresso: mi fate entrare? È finita che ha fatto la sua intervista al citofono, davanti a un portiere che osservava esterrefatto dalla guardiola. Confessa che diverse volte avrebbe voluto intervistare Silvio Berlusconi ma lo staff «mi ha sempre risposto vediamo. Che è un modo tutto italiano di dire no». Ha tentato di rifarsi durante gli incontri con la stampa estera «ma alle mie domande non ricevo risposta».

Guy non è un estremista, anzi. Il suo giornale è la bibbia economica dei liberal e dunque non dovrebbero esserci problemi. Il guaio, come si diceva prima, è che fa e si pone domande. Dice che farle, e farle sul serio, è il suo mestiere. Anzi suo dovere.

Chiamato dal professor Franco Staffa, presidente dell'associazione Italia-Inghilterra, a tenere una conferenza (L'Italia vista da un giornalista inglese ), Guy mostra stoffa da vero resistente. Atterrato in tarda mattinata a Cagliari, viene accompagnato in un ristorante di pesce per un pranzo vero, non un brunch veloce veloce e magari in piedi. Subito dopo, senza aver avuto neanche il tempo di passare in albergo, si sacrifica e concede questa intervista mentre manca ormai giusto un'ora all'incontro pubblico.
Due, a questo punto, le ipotesi sulle lunghe pause prima di ogni risposta: Guy Dinmore è un uomo davvero riflessivo oppure hanno esagerato in ristorante.

Le rivelazioni di Wikileaks segnano la morte della diplomazia?
«Non credo ma non c'è dubbio che i diplomatici americani debbano cambiare stile e metodo. I governanti italiani, penso a Gianni Letta che racconta del premier al numero due dell'ambasciata Usa a Roma, dovrebbero fare più attenzione quando parlano con loro. Gli americani sono eccellenti ascoltatori».

In Italia c'è libertà di stampa?
«Certo che c'è libertà di stampa. E ci sono anche gli stessi problemi dei giornalisti di altri Paesi. I quotidiani, parlo di quelli inglesi ma vale anche per gli italiani, stanno perdendo un sacco di copie».

Colpa degli azionisti?
«Le pressioni non mancano, però la verità è principalmente un'altra: i giovani non amano e non leggono la carta stampata. C'è un cambiamento generazionale che sta mutando abitudini e comportamenti».

Vale anche per i tabloid londinesi, giornalismo gossiparo?
«Naturalmente. Rispetto a un passato di tirature milionarie hanno adesso perdite vistose. L'interesse e la curiosità di un tempo per certe questioni non ci sono più. Il Financial Times vende nel Regno Unito 150mila copie. Vorrà dire qualcosa questo, no?»

Tornando alla libertà di stampa?
«In Italia c'è di sicuro anche se i quotidiani sono troppo spesso legati a partiti politici». 


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