lunedì 20 dicembre 2010

Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale

di Ilvo Diamanti
Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere. Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata. Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang.


Può sembrare paradossale riflettere sul legame di Silvio Berlusconi con il territorio. Descriverne l’identità geopolitica «nazionale». Farne oggetto di analisi specifica e approfondita.
Silvio Berlusconi, infatti, appare come l’inventore e l’attore protagonista della «politica come marketing», mediatizzata e personalizzata. Dunque: una politica senza territorio. Che ha come spazio la comunicazione e, in particolar modo, la televisione.
Eppure, l’identità politica di Berlusconi è stata elaborata, promossa, sviluppata dal suo artefice in modo consapevole e accurato, porgendo grande attenzione al territorio. Sotto il profilo dell’organizzazione, ma anche – e prima ancora – della rappresentazione.
Il Cavaliere, infatti, ne ha fatto argomento esplicito – marchio e parola – della comunicazione politica. Il che non deve sorprendere più di tanto.
Perché non c’è discontinuità, nella strategia di Berlusconi, fra la politica mediatica e personalizzata, da un lato, e il riferimento al territorio, dall’altro. In particolare se si considera quanta importanza abbia avuto il territorio, negli ultimi trent’anni. E quale valore mantenga ancora oggi, sul mercato elettorale.
Dal punto di vista simbolico, ma anche organizzativo: come bandiera e come tema dell’agenda politica. Berlusconi, per questo, ne ha fatto largo uso in campagna elettorale. Cioè: sempre. Visto che si vota praticamente sempre. E comunque viviamo in campagna elettorale permanente.
Il territorio come marchio e come network
Silvio Berlusconi ha adottato il territorio come argomento di marketing, ma anche come fattore di aggregazione e di coalizione. Cioè: come network. Fin dall’inizio della sua esperienza politica, in occasione della campagna elettorale del 1994. Le prime elezioni della (cosiddetta) Seconda Repubblica.
Una fase di svolta, durante la quale il sistema partitico e istituzionale è in piena crisi, in pieno sfaldamento. Sottoposto a molteplici, laceranti tensioni. Non ultima, anzi tra le più importanti, quella territoriale, interpretata dalla Lega Nord. Soggetto politico che si muove tra rivolta economica e protesta politica. La sua proposta – anzitutto simbolica ed emotiva – si riassume nella lotta «contro Roma e il Sud».
Riflette, quindi, una duplice domanda di cambiamento: socio-economico e geopolitico. Roma, infatti, appare e viene polemicamente rappresentata come la capitale del sistema partitocratico e della corruzione politica. Luogo del centralismo statale e dell’intervento pubblico assistenziale.
Il Sud costituisce, invece, il principale beneficiario della spesa pubblica, a cui Roma – lo Stato centrale – destina una quota spropositata delle risorse prodotte soprattutto nel Nord. D’altronde, gran parte della base elettorale dei partiti di governo della Prima Repubblica (la Dc, anzitutto, ma anche il Psi), dopo gli anni Settanta si era prevalentemente spostata nel Mezzogiorno. Accompagnata e sostenuta – appunto – dalla spesa pubblica e dalla protezione dello Stato.
Anche Silvio Berlusconi, peraltro, è molto caratterizzato dal punto di vista territoriale. È un imprenditore di Milano, capitale del «nuovo» Nord. Epicentro della ribellione contro il sistema partitocratico della Prima Repubblica.
È la città di Mani Pulite, l’alternativa a Roma, ma anche a Torino, capitale del «vecchio» Nord, che si regge(va) sulla grande industria protetta dalla politica e dallo Stato. Milano, invece, è il baricentro del capitalismo di produzione dei beni immateriali. Finanza, servizi, comunicazione.
Berlusconi ne riflette l’immagine. E a sua volta contribuisce a definirla. In una certa misura, è un altro Nord. Diverso da quello rappresentato da Torino e dalla Fiat. Diverso anche dal Nord della Lega. Che rappresenta il neocapitalismo rampante, espresso dalla piccola e piccolissima impresa, che si sviluppa soprattutto nelle province non metropolitane.
Pedemontane, più che padane. E corre dal Nord-Est al Nord della Lombardia, fino a toccare alcune province del Nord-Ovest, periferiche rispetto a Torino (Cuneo, in primo luogo). È l’erede della Dc, dal punto di vista della base elettorale. Ma se ne distacca per molti altri versi. La Lega è, infatti, diversa e opposta alla Dc per stile, linguaggio, proposta.
Berlusconi, dunque, interpreta un altro Nord: non di sinistra, ma neppure leghista. Per tradizione e storia, sicuramente anticomunista. Per biografia e geografia, contiguo e concorrente al Nord leghista. Tuttavia, per interesse politico ed elettorale, oltre che imprenditoriale, non può fare la guerra a Roma e al Sud.
Significherebbe, tra le altre cose, rinunciare a vincere. Condannarsi ad essere minoranza.
Come il Pci e la sinistra, che non avevano mai governato, in Italia, non solo per il vincolo internazionale, ma anche perché rinchiusi in una larga ma delimitata riserva di caccia elettorale. L’enclave della zona rossa, che circoscrive le – ed è circoscritta dalle – regioni dell’Italia centrale.
Per questo Berlusconi, in vista delle elezioni del 1994, allestisce una coalizione che rammenta un catalogo di etichette territoriali. Aggrega, in un unico cartello elettorale, oltre alla Lega Nord, anche Alleanza nazionale.
Partito post-fascista, gemmato dal Msi proprio in vista del voto. Per base elettorale, una sorta di Lega Sud. Associa, inoltre, anche i neodemocristiani del Ccd.
Complemento della Lega nel Nord e di An nel Sud. In questo modo, peraltro, oppone il Nuovo (le emergenti identità territoriali) al Vecchio (i partiti di ex e di post: comunisti, democristiani eccetera).
Insomma, Berlusconi convoglia in un unico contenitore (il Polo) contesti – sociali, economici e anzitutto simbolici – largamente inconciliabili. Fin dal nome: il Nord e la nazione (ancorata a Roma e nel Sud, patrie di An).
Berlusconi li riconcilia e li riassume, fornendo loro una cornice comune, definita dal suo «partito personale». Il quale, non per caso, si chiama Forza Italia. Un nome significativo.
Più che evocare la nazione raffigura la Nazionale di calcio. Richiama il paese delle passioni, che si identificano nella maglia dei calciatori. Azzurra, come la bandiera di Forza Italia. Come la casacca dei militanti forzisti. Gli «azzurri».
L’Italia di Berlusconi evoca, inoltre, la televisione, di cui egli è il più importante e potente imprenditore privato. Non solo in ambito nazionale. Quella che egli interpreta e raffigura è un’Italia «senza territorio», appunto.
Ma è un network capace di connettere e di tenere insieme i diversi territori – altrimenti inconciliabili e contrapposti – rappresentati dalla Lega e da An.
La sua immagine personale, la sua costruzione mediale di «italiano medio», in grado di vincere e di raggiungere il successo in ogni campo, gli consentono di offrire una colla ai pezzi di un paese spezzato dalla politica, oltre che dall’economia. Peraltro, la sua capacità di comprendere e maneggiare le logiche della nuova legge elettorale semi-maggioritaria gli permette di costruire un cartello vincente, evitando i contrasti fra attori politici e territoriali tanto lontani.
Così costruisce un’alleanza distinta: a Nord con la Lega; al Centro-Sud con An. Lega Nord, Lega Sud. Entrambi uniti da Forza Italia. L’unico e il solo partito in grado di presentare una distribuzione del voto «nazionale»; comunque, non circoscritta e marcata territorialmente. A differenza degli alleati, ma anche dei partiti di centro-sinistra.
Così la Seconda Repubblica nasce insieme all’Italia mediatica e personalizzata di Silvio Berlusconi. Capace di sostituire con il marketing la perdita di forza dell’ideologia. E di personalizzare questo «paese di compaesani», come lo definisce Paolo Segatti.
Questo paese di paesi. Proponendo se stesso come modello. Il sogno americano all’italiana. Visto che gli italiani (non tutti, ovviamente, ma una parte rilevante di essi) sono dei «Berlusconi più poveri» (per echeggiare una felice formula di Massimo Gramellini).
La «geopolitica nazionale» di Berlusconi, dunque, è una costruzione personale e personalizzata. Opera abile e complessa, mediale e narrativa. Diplomatica e organizzativa. Perché solo lui è in grado di tenere insieme i partiti e i leader che rappresentano le diverse Italie. Bossi, Fini, Casini. E solo lui è in grado di imporre confini territoriali stretti e invalicabili agli avversari, ai «nemici» del centro-sinistra.
La parola e lo stigma «comunista», che Berlusconi usa senza sosta e come mai era avvenuto nella Prima Repubblica, quando i comunisti esistevano davvero, costringe il centro-sinistra dentro allo storico recinto delle regioni rosse del Centro Italia. Lo riduce a una sorta di Lega di Centro (come la definisce Marc Lazar).
La retorica dei fatti e dei luoghi
Un secondo, importante uso che Berlusconi fa del territorio è di tipo narrativo. Se ne serve, cioè, come esempio e raffigurazione del suo stile di azione e di attore. Concreto, operativo, diretto. Poco abituato alle chiacchiere, ai discorsi vuoti e fini a loro stessi dei «politici professionali». Alle parole, Berlusconi oppone i fatti. Alle utopie (per definizione: luoghi ideali) egli oppone i luoghi concreti. Berlusconi: è «l’uomo del fare» che guida il «governo dei fatti».
Nel 2001, in campagna elettorale, nel salotto di Bruno Vespa, traccia (letteralmente: con un pennarello su un tabellone) il suo decalogo, dove campeggiano «grandi opere» che segnano (talora devastano) il territorio. Grandi reti autostradali e ferroviarie ad «alta velocità», che segnano la mappa del paese.
Ancora: il ponte sullo Stretto di Messina. E nel 2006, alla vigilia del voto dove appariva sconfitto predestinato, riesce quasi a rovesciare il pronostico, promettendo, nel faccia a faccia con Prodi, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Ossia il taglio della tassa che colpisce la quasi totalità degli italiani «a casa loro». Nel luogo in cui abitano e vivono con la loro famiglia.
Infine, alle elezioni del 2008, dove esce trionfatore con la sua coalizione, imposta la sua campagna sull’immagine dei rifiuti di Napoli.
Le cataste di immondizie che si ammassano nelle strade di uno dei luoghi-simbolo del governo di centrosinistra. La città e la Regione di Bassolino. Artefice di una stagione di speranze e di rinascita. Berlusconi punta sul «miracolo illusorio» della sinistra. E promette che lì, proprio lì, le cose cambieranno «in modo visibile». Napoli liberata dalle immondizie è «il luogo» che testimonia dell’efficienza dell’Imprenditore dedito alla politica per il bene comune.
Così, un anno dopo, L’Aquila devastata dal terremoto gli permette di affermare nuovamente il suo stile e il suo esempio. L’uomo del fare. Che agisce nel paese reale. E libera il territorio coperto di macerie. Da cui risorgerà la città. I «luoghi» permettono a Berlusconi di mettere in scena la sua azione politica. Per ancorare le sue parole a un territorio. A un contesto. Illuminato dai media. E dunque reale.
Le fratture inattese dell’unificazione personale del paese
Il nesso con il territorio, dunque, è in grado di spiegare molte ragioni del successo di Berlusconi. Ma ne annuncia anche la debolezza. Altrettanti motivi di instabilità. Intuibili fin dall’inizio della sua vicenda politica, che dura ormai da sedici anni, oggi sembrano divenuti palesi e difficilmente sostenibili. Li riassumiamo rapidamente.
A) La prima ragione richiama la difficoltà di ricomporre interessi e identità territoriali tanto contrastanti su basi «personali».
Un problema che emerge subito, quando, nel 1994, dopo pochi mesi di governo, la Lega di Bossi rompe con la maggioranza e quindi con Berlusconi. Perché Berlusconi e Forza Italia, più che alleati, sono divenuti concorrenti della Lega.
Ne hanno eroso i consensi e la rappresentanza nel Nord. Per cui la Lega se ne va e corre «da sola contro tutti». Ma soprattutto contro di lui: Berlusconi. E alle elezioni del 1996 lo sconfigge.
O meglio, vince l’Ulivo guidato da Prodi, ma solo perché nel Nord la Lega batte nettamente il Polo delle Libertà, dove Berlusconi ha riunito accanto a Forza Italia Alleanza nazionale e i neo-dc. Legittimando la propaganda polemica di Bossi contro il Polo di Roma e del Sud. Perché la «rappresentazione» è diversa dalla «rappresentanza».
Berlusconi può dare «immagine» al Nord, ma non dispone di radici forti e stabili che gli permettano di formare una base politica ed elettorale solida. Non a caso, nel 2000, Berlusconi ricuce il rapporto con Bossi e la Lega.
Fiaccati, a loro volta, da un antagonismo «rivoluzionario» che li fa apparire «poco produttivi» agli elettori del Nord. Ai quali, assai più della secessione, interessa ottenere – da Roma – risorse e potere.
Berlusconi e Bossi, insieme, tornano a vincere. Nord e (Forza) Italia: di nuovo uniti. Lo stesso problema, peraltro, emerge nel rapporto con il Mezzogiorno, do- ve Forza Italia deve misurarsi con la concorrenza di An, i neo-dc e le altre formazioni regionali e locali (Udeur, Mpa eccetera). Tanto più forte quanto più esplicita diventa l’azione politica della Lega.
E quanto più il peso politico della Lega diventa rilevante, nella Casa delle libertà. Cioè nel polo di centro-destra. Allora, la mediazione politica di Berlusconi diventa faticosa. E la sua immagine stenta, a sua volta, a unificare – o almeno a mediare – i diversi paesi del paese. Le diverse Italie che compongono l’Italia.
B) Questa tensione diviene lacerante dopo le elezioni del 2008. Quando il progetto unificante e unitario di Berlusconi sembra raggiungere il livello di suc- cesso più elevato.
Non solo perché conduce la coalizione alla conquista di una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. Ma perché unifica An e Forza Italia. Il partito nazional-meridionale e quello nazional-personale sotto un’unica bandiera. La sua.
L’alleanza con la Lega, peraltro, riproduce lo schema originario: l’intesa fra il Nord e l’Italia. Unico garante: lui. Insieme al suo amico e complice: Umberto Bossi.
L’Italia fondata sui legami personali. Una cornice che non regge. Non tiene più. Perché l’Italia «mediale» deve fare i conti con quella «reale». E i conti dell’Italia reale sono critici. Fissati dalle regole e dai vincoli internazionali. Fiaccati dalle crisi economiche e finanziarie globali.
Non è facile, anzi: è impossibile soddisfare Nord e Sud. Allo stesso tempo. Tanto più – tanto meno – servendosi, come strumenti privilegiati, dell’immagine. Della narrazione. Della personalizzazione.
L’immagine e la narrazione di Berlusconi non bastano più. Soprattutto nel Mezzogiorno. Dove le paure – e le conseguenze – della crisi sono difficili da accettare. E le politiche del Nord – riassunte nel federalismo – fanno paura.
Tanto che la maggior parte dei cittadini del Sud le considerano strategie secessioniste. Contro gli interessi del Mezzogiorno. Mentre i cittadini del Nord, in misura crescente, considerano il Sud semplicemente «un peso per lo sviluppo del paese» e un costo senza benefici per il Nord.
C) Ancora: la rappresentanza «personale» della politica e dei territori produce, come conseguenza imprevista e indesiderata, il trasferirsi dei conflitti e delle fratture dal piano personale a quello geopolitico.
Così, la frattura tra Berlusconi e Fini non produce solo la scomposizione del Pdl, ma anche la scomposizione tra Nord e Sud. Visto che Bossi, per primo, elegge Fini – insieme a Casini – portabandiera degli interessi del Sud.
Il che, peraltro, ottiene, come ulteriore conseguenza, a cascata, la scomposizione interna ai territori. Fa emergere altre tensioni, che promuovono altri partiti, altri leader – locali. Soprattutto nel Mezzogiorno e in Sicilia.
Infine, la «localizzazione» della politica, della comunicazione e della comunicazione politica. Trasforma la «retorica del fare» in retorica tout court.
Perché se l’immondizia ritorna periodicamente a sommergere Napoli, se le macerie continuano a seppellire il centro dell’Aquila, allora i fatti diventano semplici parole. Contraddette dalle immagini. Mentre i luoghi diventano metafore.
Di un’Italia immaginaria e illusoria. Raccontata e inesistente. Una favola, più che una parabola. Il racconto di un paese che non c’è. Neppure come raffigurazione.
I limiti della geopolitica personale
Così la geopolitica nazionale di Silvio Berlusconi si trasforma in limite. L’imprenditore politico che ha inventato e costruito la Seconda Repubblica, nell’anno in cui si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia rappresenta un’Italia divisa.
Dove le fratture territoriali originarie non si sono saldate, ma anzi riemergono, moltiplicate e amplificate dalla logica mediatica e personale di quest’epoca. A riflettere il fallimento di un progetto di unificazione nazionale e (meta)territoriale. In fondo: del progetto (geo)politico personale di Silvio Berlusconi.
 
 

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