domenica 23 gennaio 2011

Notizie Federali della Sera: 23 gennaio 2011.

Sezione sud, disturbi paranoidi della personalità:
1. Sono un prete stufo di fango.
2. Gioventù potentina.
3. Potenza città di cicale.
4. Foggia. Ragazzi ripuliscono orto abbandonato, denunciati da polizia.
5. Puglia. Incredibile, tutti stregati dal teatrino della politica.

Sezione padania, appalti, fatturato ed export:
6. Trentino. Mezzacorona, 42 milioni da dare ai contadini.
7. Trieste. I sindaci: la Tav si deve fare ma consultateci sui lavori.
8. Brescia. Export, Made in Italy verso il rilancio.
9. Belluno. Metà lavoratori ancora a casa.
10. Genova. Nasce il museo della rumenta.

Sezione cartolina calabrese:
11. Trento. Cetto La Qualunque.


1. Sono un prete stufo di fango. Sono un prete. Un prete della Chiesa cattolica. Uno dei tanti preti italiani. Seguo con interesse e ansia le vicende del mio Paese. Non avendo la bacchetta magica per risolvere i problemi che affliggono l’Italia, faccio il mio dovere perché ci sia in giro qualche lacrima in meno e qualche sorriso in più. Sono un uomo che come tanti lotta, soffre, spera. Che si sforza ogni giorno di essere più uomo e meno bestia. Sono un uomo che rispetta tutti e chiede di essere rispettato. Che non offende e gradirebbe di non essere offeso, infangato. Da nessuno. Inutilmente. Pubblicamente. Vigliaccamente. Sono un prete che lavora e riesce a dare gioia, pane, speranza a tanta gente bistrattata, ignorata, tenuta ai margini. Un prete che ama la sua Chiesa e il Papa. Un prete che non vuole privilegi e non pretende di far cristiano chi non lo desidera, che mai si è tirato indietro per dare una mano a chi non crede.
Un prete che, prima della Messa della sera, brucia incenso in chiesa per eliminare il fetore sprigionato dalle tonnellate di immondizie accumulate negli anni ai margini della parrocchia in un cosiddetto cdr e che vanno aumentando in questi giorni.
Sono un prete che si arrabbia per le inefficienze dello Stato ai danni dei più deboli e indifesi. Che organizza doposcuola per bambini che la scuola non riesce ad interessare e paga le bollette di luce e gas perché le case dei poveri non si trasformino in tuguri. Sono un prete, non sono un pedofilo.
So che al mondo ci sono uomini che provano interesse per i bambini e, in quanto uomo, vorrei morire dalla vergogna. So che costoro sono molti di più di quanto credono gli ingenui. So anche che poco o nulla finora è stato fatto per tentare di capire e curare codesta maledizione.
Piaga purulenta la pedofilia. Spaventosa. Crudele. Vergognosa. Tra coloro che si sono macchiati di codesto delitto ci sono padri, zii, nonni, professionisti, operai, giovani, vecchi e anche preti.
Giovedì sera, trasmissione Annozero di Michele Santoro. Tantissimi italiani guardano il programma. Si discute di Silvio Berlusconi. Alla fine esce, come al solito, il signor Vauro con le sue vignette che dovrebbero far ridere tutti e invece, spesso, mortificano e uccidono nell’animo tanti innocenti. Ma non si deve dire. È politicamente scorretto. È la satira. Il nuovo idolo davanti al quale inchinarsi. La satira, cioè il diritto dato ad alcuni di dire, offendere, infangare, calunniare gli altri senza correre rischi di alcun genere. Una vignetta rappresenta il Santo Padre che parlando di Berlusconi dice: «Se a lui piacciono tanto le minorenni, può sempre farsi prete». Gli altri, compreso Michele Santoro, ridono. Che cosa ci sia da ridere non riesco a capirlo. Ma loro sono fatti così, e ridono. Ridono di un dramma atroce e di innocenti violentati. Ridono di me e dei miei confratelli sparsi per il mondo impegnati a portare la croce con chi da solo non ce la fa. Ridono sapendo che tanta gente davanti alla televisione in quel momento si sente offesa in ciò che ha di più caro e soffre. Soffre per il Santo Padre offeso e perché la menzogna, che non vuol morire, ancora riesce a trionfare. Per bastonare Berlusconi, si fa ricorso alla calunnia. E gli altri ridono.
Vado a letto deluso e amareggiato, sempre più convinto che con la calunnia e la menzogna – decrepite come la befana o come le invenzioni di qualche battutista e di qualche sussiegoso giornalista-presentatore televisivo – non si potrà mai costruire niente di nuovo e stabile. E il giorno dopo scopro che alla Rai, finalmente, stavolta qualcuno s’è indignato. Spero solo che adesso Vauro e Santoro e qualcun altro che non sto a ricordare non facciano, loro, le vittime. E che in Italia ci sia più di qualcuno che comincia a farsi avanti e, senza ridere, dice chiaro e tondo che non si può continuare a infangare impunemente quegli onesti cittadini dell’Italia e del mondo che sono i preti.  Maurizio Patriciello
2. Gioventù potentina. Meglio sognare la tivvù che una vita da precaria. di MASSIMO BRANCATI. POTENZA - Ragazze disposte a tutto pur di riuscire a fare un passaggio in Tv. E spesso sono le madri stesse a «spingere», accompagnando le figlie ai provini per programmi televisivi o per concorsi di bellezza. Probabilmente rivivono così, in modo traslato, alcune loro aspirazioni mancate. C’è chi vuole fare la «velina», altre sognano di stare in passerella o di diventare attrice. È davvero difficile trovare qualcuna che non abbia pensato, almeno una volta, di entrare nel mondo patinato della televisione e diventare così una protagonista del piccolo schermo. Forse, anche in tempi più lontani, una bella ragazza sognava di fare l'attrice e di essere notata da qualcuno che le facesse fare carriera. Alla fine erano poche quelle che decidevano veramente di impegnarsi in questo senso. Inoltre, le famiglie, generalmente, non premiavano questi comportamenti, mentre oggi, in molti casi, accade esattamente il contrario.
Così l'idea della televisione è nella testa di tante ragazze almeno quanto nei ragazzi c'è il sogno di fare il calciatore, altro mestiere fatto di successo, protagonismo e guadagni elevatissimi. Una vita che appare ai giovani come «dorata», da trascorrere senza neppure doversi troppo impegnare. La lettera che pubblichiamo in questa pagina diventa lo spunto per fare un mini-sondaggio tra le ragazze potentine. Iniziativa che, intendiamoci, non ha certo l’ambizione di avere un carattere statistico-scientifico, ma che in qualche modo indica una tendenza preoccupante: su cinquanta ragazze tra i 15 e i 19 anni, il 70 per cento ha detto di sognare il mondo dello spettacolo. E poco importa se quasi nessuna di loro sa cantare o ballare.
Risposte choc, frutto delle continue sollecitazioni dello strumento televisivo che seduce perché promette tutto e subito e fa apparire le cose come se fossero realmente a portata di mano: «La verità - dice Carla Nunziata, studentessa universitaria - è che studiare, come sto facendo, non porta da nessuna parte. Ho paura di finire come tanti altri giovani che dopo anni di studio, master e specializzazione si ritrovano a fare il precario a vita. Guadagnando mille euro al mese, quando va bene. Ecco perché - sottolinea - faccio qualche provino in giro per cercare di entrare nel mondo dello spettacolo. È una carta che voglio giocarmi».
Le fa da eco l’amica Sandra Laurino, disoccupata: «Ho partecipato due anni fa alle selezioni di miss Italia a Potenza. Non è andata bene, ma non mi arrendo. Ho fatto la domanda a «Uomini e donne» e aspetto con ansia la risposta. Andare in televisione è un’opportunità che può cambiarti la vita».
Rosanna Caggiano, commessa, sogna «Amici», il talent show di Canale 5, così come Laura Coviello: «So cantare - dice Rosanna - e vorrei provarci. L’anno scorso ho tentato di entrare a «X Factor», ma la concorrenza era altissima». «Ho talento, ne sono convinta. Più talento - sottolinea Laura - di qualche altro cantante emergente che è riuscito a entrare nello show business». Fra le risposte registrate dalla Gazzetta abbiamo scelto queste tre che spiegano più di ogni altra i sogni delle ragazze. I genitori? Rosa Telesca, impiegata, dà una chiave di lettura sociologica: «Bisogna pensare che tutti i giovani amano mettersi in mostra perché giustamente sono nel pieno del cambiamento della loro identità ed hanno bisogno di specchi per ri-conoscersi e vedersi. Senza dubbio sono cambiati i valori di fondo e così, società, famiglia e individui pensano che denaro e successo siano le uniche cose che contino nella vita per cui, naturalmente, questo modo di pensare ha finito per riversarsi su tutte le cose e sui comportamenti».
Viviamo, insomma, nell'era dell'immagine, del web, del virtuale: in questa nostra epoca così vuota di valori autentici, di ideali e di principi, l'immagine è diventata la cosa più importante da nutrire e far brillare. 22 Gennaio 2011
3. Potenza città di «cicale». di GIOVANNA LAGUARDIA. La spesa media pro capite è superiore alla media nazionale. Ma la capacità fiscale è inferiore. Ovvero si spende da ricchi ma il reddito pro capite, misurato dall’Irpef, è da poveri. Una anomalia che colloca la città di Potenza tra i capoluoghi «cicala», contrapposti ai capoluoghi «formica», dove, pur avendo una capacità fiscale superiore alla media, continuano a tirare la cinghia. La «mappa» delle anomalie fiscali d’Italia è stata redatta da Centro Studi Sintesi di Venezia, sulla base dei dati forniti dal ministero degli interni.
In particolare a Potenza l’indice di spesa è al 104 per cento, mentre la capacità fiscale è all’84. Nel novero dei capoluoghi «cicala» Potenza è in compagnia di altre città meridionali, come Napoli, Catania, Lanusei (capoluogo dell’Ogliastra, in Sardegna), Palermo, Cosenza, Cagliari, Salerno, Nuoro, Lecce, Oristano.
A cosa imputare questo curioso fenomeno? La città di Potenza è forse un capoluogo dove si vive al di sopra delle proprie possibilità, una vera e propria città dell’apparenza, come recitava una scritta che comparve sui muri del centro storico qualche anno fa? Per il sindaco di Potenza, Vito Santarsiero, la spiegazione è più semplice e meno «colorita». «Certamente - dice - questo è un dato che deve far riflettere, ma è anche un dato da leggere con molta attenzione, soprattutto in un modello che tende al federalismo fiscale. Soprattutto è un dato che va disgregato, dal momento che il contesto urbano di Potenza è un contesto metropolitano e questo si traduce in due modi. Innanzitutto ci sono molte attività industriali che hanno sede, anche legale, nelle aree di Tito Scalo o di Avigliano e che quindi pagano le tasse in quei comuni. Poi c’è da considerare che a Potenza nei giorni lavorativi arrivano in città ogni giorno almeno cinquantamila persone dai paesi della Provincia, che spendono in città i loro soldi».
Insomma, il dato della capacità di spesa sarebbe falsato verso l’alto dall’afflusso quotidiano di pendolari e affini, mentre quello della capacità fiscale sarebbe falsato verso il basso dal fatto che molte attività potentine non hanno sede in città ma nei comuni limitrofi, dove vengono pagate le tasse. «Questo, continua Santarsiero - dipende anche dalla localizzazione urbana della provincia di Potenza ma anche di tante altre realtà del Sud rispetto al Nord, dove tasse e spese tendono a rimanere nell’ambito della singola città, mentre da noi spende in città chi viene da fuori e, dall’altro lato, le imprese tendono ad essere allocate fuori città».
Certo è che, alle porte del federalismo fiscale, per la città di Potenza essere «additata» come uno dei capoluoghi cicala non sembra certamente di buon auspicio, anche se i ricercatori del centro Studio Sintesi di Venezia hanno tenuto a precisare che «Questo studio, che da un lato analizza la capacità fiscale dei comunie dall’altro la confronta con la propensione alla spesa, non mette in discussione la perequazione e il principio di solidarietà tra i territori, bensì contribuisce unicamente a fare un po’ di luce sulla necessità di abbandonare il criterio della spesa storica per passare ad un più adeguato sistema di finaziamento basato sugli effettivi fabbisogni di spesa» 22 Gennaio 2011
4. Foggia. Ragazzi ripuliscono orto abbandonato denunciati da polizia. La denuncia è banale: invasione di terreno; la storia è curiosa: tre ragazzi per bene che hanno occupato abusivamente un terreno abbandonato e che ritenevano non fosse di nessuno per ripulirlo, ararlo, recintarlo e farci un piccolo «giardino delle delizie» con un frutteto. Il sogno di tre aspiranti agricoltori è stato «infranto», giocoforza, dagli agenti delle «volanti» allertati da una segnalazione al «113»: i poliziotti hanno verificato che il suolo era di un foggiano e che i tre foggiani non avevano nessun diritto di occuparlo, anche se un favore al proprietario del terreno indirettamente gliel’hanno fatto: l’hanno ripulito dalle erbacce ed arato. La mattinata in Questura dei tre giovani foggiani si è conclusa non solo con la denuncia a piede libero, ma anche con il sequestro penale (quale mezzo utilizzato per commettere il reato) di un furgoncino con una gru, usato per mettere i paletti e recintare il terreno. I 60 alberi da frutta che i tre «indagati» avevano appena piantato sono stati espiantati, sequestrati ed affidati in custodia giudiziale agli stessi tre ragazzi.
Per i cultori del diritto si potrà disquisire tra «res nullius» (cosa di nessuno, di cui si acquisisce il possesso) e «res derelicta» (cosa abbandonata e non è che la puoi prendere); agli atti dell’«inchiesta» c’è la relazione dei poliziotti intervenuti l’altra mattina in località «Spetta», a due chilometri da Foggia su via Manfredonia. Chi ha chiamato il «113» (pare si tratti di un anonimo) ha segnalato la presenza di tre giovani intenti a lavorare in un campicello. I poliziotti hanno verificato la fondatezza della segnalazione, identificato i tre foggiani e accertato che il terreno da loro recintato è di proprietà di un agricoltore. Quel suolo era pieno di erbacce - hanno detto stupiti i tre ragazzi ai poliziotti - e l’avevano ripulito e arato. Ieri mattina il lotto di terreno lo dovevano recintare, tanto da aver già messo oltre 100 paletti (a questo serviva la gru sul furgoncino trovata sul posto e sequestrata dalla polizia): sequestrata anche una rete metallica che doveva servire a recintare l’area, destinata ad un piccolo frutteto. Per i tre aspiranti agricoltori scatterà la denuncia per violazione dell’articolo 633 del codice penale: «invasione di terreni o edifici». Ora sarà la Procura ad occuparsi della vicenda. 22 Gennaio 2011.
5. Incredibile, tutti stregati dal teatrino della politica. di ONOFRIO PAGONE. Cosa è più grave: la causa o l’effetto? C’è da allarmarsi di più per il fatto che il presidente del Consiglio preferisca circondarsi di cervelli supini e signorine sguaiate, o per converso è più preoccupante che intorno a questo caso non si crei una mobilitazione di coscienze su ciò che è giusto, etico, condivisibile ed educativo per una società già in crisi? Il dibattito che si va sviluppando intorno al «caso Ruby» è purtroppo la riprova che la sostanza pruriginosa delle nottate del premier avvinca ben più del turbamento o dell’in - dignazione, che pure produce.
I salotti televisivi sono diventati l’esibizione talvolta muscolare di posizioni contrapposte a difesa del premier o dei suoi accusatori, come se davvero in questa situazione il pomo della discordia fossero esclusivamente le maratone sessuali oggetto dell’inchiesta.
Il guaio più grosso è proprio questo. La politica tutta si ostina a incartarsi sulla girandola di giovani donne, belle e disponibili, accolte paternamente - questa è l’accusa - nel letto del presidente del Consiglio, mentre lui resta nell’immaginario collettivo come il macho vigoroso legittimato per questo a spostare l’attenzione sugli eventuali limiti dell’azione giudiziaria fin qui compiuta. Il processo al presidente del Consiglio si trasforma perciò in processo alla Procura e il quesito ruota intorno al comportamento dei pm: hanno fatto bene o hanno sbagliato? Sono competenti o no? L’accanimento giudiziario della procura fa così il paio con l’accanimento sessuale del premier, che in casa sua resta libero di poter fare ciò che vuole pur nei limiti imposti dalla legge a lui come a noialtri.
Messa in questi termini, la vicenda è destinata a sgonfiarsi: per saturazione, non per altro. Perché se la politica si riduce al dibattito sulle signorine del premier, diventa sterile e stucchevole. La politica, tutta, è in panne. E l’opposizione sembra non aver ancora compreso che il premier va inchiodato alle proprie responsabilità politiche ed istituzionali, prima ancora che ai presunti reati da appurare e poi giudicare.
Un esempio, basta un esempio, per capirci. Il 12 febbraio dello scorso anno il presidente del Consiglio ebbe modo di sollecitare il suo omologo albanese, il signor Berisha, a mantenere il blocco dell’emigrazione dall’Albania «con qualche eccezione - così disse pubblicamente - per chi porta belle ragazze». Insomma: il mondo della prostituzione in Italia è affollato da ragazze albanesi, spesso ridotte in schiavitù, ingannate e sfruttate dalle organizzazioni che gestiscono la tratta di esseri umani. Ma quanti salotti televisivi si animarono un anno fa per discutere su una «battuta» dal sapore politico espressa dal Capo nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali? Nessuno. Solo un gruppo di 14 intellettuali e artisti albanesi immigrati in Italia ebbe modo di protestare e sollecitare «scuse formali», mai arrivate. E la politica italiana, salvo casi isolati, fece finta di niente: non colse la gravità di quella affermazione rilasciata peraltro in sede diplomatica.
Adesso invece la politica italiana si scandalizza delle notti di Arcore, ma solo perché le documenta la Procura. In questi giorni così infuocati dal «caso Ruby», è successo anche che in Afghanistan sia stato ucciso l’ennesimo soldato italiano impegnato in una missione cosiddetta di pace. Bene: i salotti televisivi così eccitati da Ruby e dintorni hanno dimenticato di registrare che, per esempio, il premier indagato per queste storie di letto e corruzione è stato l’unico rappresentante istituzionale assente ai funerali di quel soldato. E pure la politica (comprese le opposizioni) non lo ha rimarcato, come se il vuoto istituzionale a un funerale fosse meno grave di una presenza in camera da letto.
L’elenco degli esempi è lungo. Conviene citarne un altro soltanto, giusto per capire perché la politica sbaglia ad inseguire la magistratura o, peggio, ad andare al rimorchio delle Procure. In quei salotti televisivi, come nella gran parte dei telegiornali e dei giornali, nessuno si è ricordato che in Veneto una disposizione di assessori leghisti ha fatto sparire i libri di taluni autori contemporanei (a cominciare da Roberto Saviano) colpevoli di aver all’epoca firmato un appello sulla causa del pluriomicida Cesare Battisti, tuttora detenuto in Brasile. La Lega, al momento unica effettiva detentrice delle sorti politiche del premier, ha già avviato la sua campagna di repressione culturale nel silenzio compiacente di tutta la politica nazionale. Che è troppo presa ad accapigliarsi intorno al «pilu», proprio nei giorni in cui nei paesi dirimpettai del Maghreb si muore nella rivoluzione per il pane. Chi sta peggio, imaghrebini o noi? Noi, ovviamente. Noi che accettiamo di ridimensionare i diritti sindacali per non perdere il lavoro e cioè il pane. Noi che non abbiamo la forza di reagire e la voglia di agire, per i limiti culturali e politici della classe dirigente ma anche di chi la esprime. Una società che ha perso di vista il valore della solidarietà non può che invocare soltanto «più pilu pe’ tutti». Ha ragione il novello principe del qualunquismo. E allora: di cosa ci scandalizziamo?
6. Trentino. Mezzacorona, 42 milioni da dare ai contadini. 23/01/2011 09:25. MEZZOCORONA - La super-cooperativa limita i danni dell'annus horribilis 2009-2010, remunerando i suoi 1.500 soci con un ancora lussuoso liquidato di 90 euro al quintale, sia pure in calo di 12 euro, ma pur sempre quasi il doppio dei 50 euro toccati ai vicini di La Vis, che il giorno prima hanno dovuto trangugiare il bilancio più amaro. Prima di andare nella sua assemblea, il ragazzo del ‘44 Fabio Rizzoli, granduca di Mezzacorona in smagliante forma, ha parlato a tutto campo con il cronista.
Cominciamo proprio dalla povera La Vis: farete ancora campagne acquisti di soci?
«No, i nostri cancelli sono praticamente chiusi. Anche perché noi non vogliamo una La Vis debole: i nostri vigneti la circondano e, se i prezzi dei loro terreni calano, è un danno anche per noi. Dunque, spero che adesso si mettano apposto anche se io avevo suggerito un'altra via, che mi sembrava preferibile anche per salvaguardare i soci: il concordato preventivo. Ma a questo punto bisogna essere ottimisti».
Cancelli chiusi a eventuali nuovi transfughi di La Vis, lei dice. Ma che cosa pensa, in generale, dei vincoli alla mobilità intercooperativa dei soci, proposta da Cavit per salvaguardare i piani di investimento e recepita dal patto di sistema proposto dalla Federazione della cooperazione?
«Sono assolutamente contrario e ho chiesto a Schelfi di ritirare quella clausola. E il comitato del settore agricolo mi ha dato ragione. La cooperazione è mutualità volontaria, non solidarietà obbligatoria. Se una cooperativa decide autonomamente di bloccare i recessi per un certo periodo può farlo, ma guai se lo decide dall'alto la Federazione. È come la regola della rotazione delle cariche: non può essere imposta dall'esterno della cooperativa».
Anche su questo punto siete in disaccordo con Cavit: insomma, la famosa sinergia tra i due colossi non la farete mai.
«Non è così. Io credo che alla fine la crisi ci aiuterà a trovare, noi cento aziende del vino in Trentino, un modo di lavorare insieme. Non i piccoli contrapposti ai grandi, perché i grandi come noi sono fatti di mille piccoli viticoltori, ma ognuno con la sua specificità. I vignaioli sono una parte importante del mazzo di fiori della viticoltura, ma c'è tutto il resto del mazzo che dà forza all'insieme. Certo, la nostra mission è valorizzare i prodotti di qualità del Trentino, noi non importiamo e non imbottigliamo altro vino: e non abbiamo intenzione di cambiare strada, perché pensiamo che sia quella giusta. Mi rendo conto che io non suscito molta empatia, ma dico quello che penso: sulla strada della valorizzazione del vino trentino possiamo incontrarci con tutti, Cavit compresa; su altre strade, no».
7. Trieste. I sindaci: la Tav si deve fare ma consultateci sui lavori. Riccardi: «Nessun provvedimento prima dei confronti con gli enti». San Giorgio di Nogaro il più preoccupato: sottoscritto un altro tracciato. di Martina Milia. TRIESTE. La Tav si deve fare. Ne vale lo sviluppo portuale del Friuli Venezia Giulia. I Comuni interessati (una trentina) non si tirano indietro, ma sulle caratteristiche e l’i mpatto della linea nei singoli territori chiedono chiarezza: incontri aperti alla popolazione, alla presenza di tecnici super partes. E la Regione è pronta a farli. «Il progetto è un punto di partenza – ha detto l’assessore Riccardi –. Ma nessuno pensi di utilizzare l’opera per fare campagna elettorale».
Le perplessità sono ancora tante e riguardano questioni puntuali, specie in territori segnati dalla presenza di altre infrastrutture impattanti (elettrodotti, autostrada eccetera). Ma nessuno dei sindaci che ha partecipato ieri all’assemblea organizzata dalla Regione per presentare le procedure e il progetto elaborato da Italferr per le tratte di alta velocità (in realtà capacità ferroviaria) tra Portogruaro-Ronchi e tra Ronchi e Trieste, ha posto barricate. Mentre fuori dalla sede regionale un gruppo di manifestanti ha sfidato la bora chiedendo alla Regione e all’a ssessore Riccardo Riccardi di aprire un confronto anche con chi è contrario all’opera, l’atteggiamento dei sindaci è stato conciliante.
Le premesse, per arrivare alla successiva intesa Stato-Regione (“ sentiti i Comuni” come prevede la norma) ci sono, anche se il percorso per arrivare alla assimilazione di un’opera, che sarà comunque impattante, è complesso e lungo.
Le richieste. Nessuno dei sindaci intervenuti, nemmeno quelli che nel 2008 non hanno sottoscritto l’intesa con la Regione (come il primo cittadino Mario Pischedda, che si è definito per questo “l’ultimo dei Mohicani” o il sindaco di Doberdò del Lago, Paolo Vizintin, che ha ricordato come il suo Comune sia segnato da pesanti infrastrutture e ha chiesto maggior tempo per studiare la documentazione inviata) hanno bocciato il progetto o l’o pera. Anche il primo cittadino di Cervignano, Pietro Paviotti, che nei giorni scorsi aveva espresso forti riserve e aveva inviato alla Regione una lettera dai tondi duri, ha premesso di essere favorevole «al potenziamento della rete ferroviaria nella nostra regione» e ha ricordato di essersi impegnato in prima persona per un tracciato che prevede il passaggio sull’attuale linea ferroviaria. Più risoluto il sindaco di San Giorgio di Nogaro, Pietro Del Frate, che, pur non essendo contrario alla ferrovia in sè, si è detto pronto a ritirare la firma all’intesa del 2008 se non sarà rivisto il tracciato nel suo Comune. «Il progetto presentato non corrisponde a quell’intesa» ha detto.
Roberto Dipiazza, sindaco di Trieste, ha invece sottolineato l’i mportanza della ferrovia per superare il deficit infrastrutturale della Regione, soprattutto nei confronti della Slovenia. Il presidente della Provincia di Gorizia, Enrico Gherghetta, ha invece sottolineato come il progetto sia migliorativo per l’isontino rispetto alle prime ipotesi. Vittorio Zollia, della Provincia di Trieste, ha chiesto un maggior coinvolgimento degli enti di area vasta.
Assemblee. La richiesta più comune è stata quella di organizzare assemblee nei territori e di affiancare gli enti locali con tecnici super partes, tecnici “laici” come li ha definiti Paviotti.
La Regione. L’assessore Riccardo Riccardi ha assicurato che la settimana prossima inizierà il confronto con gli enti per programmare assemblee pubbliche a cui sarà presente lo stesso assessore. Riccardi, nel ringraziare gli amministratori per il «buon senso» dimostrato, ha richiamato tutte le istituzioni alla responsabilità. Pur condividendo le preoccupazioni degli enti locali – «l’analisi costi-benefici non è prevista dalla procedura ma è auspicabile che sia fatta» –, Riccardi ha ricordato come il futuro della Regione passi attraverso il potenziamento della ferrovia, un’opera che - stando ai tempi che serviranno per la sua realizzazione - molti amministratori di oggi non vedranno. Un’opera che arriva in ritardo per un atteggiamento di ostracismo che in Italia tende ad accompagnare molte opere. «Chiediamoci perché è nata la legge obiettivo – ha rilanciato l’assessore – che permesse di superare il parere degli enti locali. Quando si arriva a questo è una sconfitta per tutti».
In un clima di apertura, Riccardi ha anche voluto dare un segnale forte agli amministratori: «Non voglio neanche immaginare – ha detto ai sindaci – che qualcuno pensi di sfruttare il tema per la propria campagna elettorale. Se qualcuno lo farà se ne assumerà le proprie responsabilità».
8. Brescia. Export, Made in Italy verso il rilancio. DISTRETTI E TENDENZE. Per alcuni comparti la ripresa è già arrivata: nei Paesi ad alto reddito a farla da padrone è l'industria alimentare italiana. Alcuni comparti danno risultati apprezzabili, soprattutto quando «scoprono» i mercati emergenti. La crisi c'è ma anche chi ne è uscito alla grande. Alcuni settori e soprattutto alcuni distretti hanno approfittato del momento per stringere i denti e diventare i paladini del del made in Italy. Uno di questi come prevedibile è il cibo che fa da padrone nelle vendite nei Paesi ad alto reddito.
EXPORT. I dati dettagliati della pur consistente ripresa complessiva delle esportazioni (intorno al 15% nei primi nove mesi del 2010) mostra anche come il dopo crisi non sia uguale per tutti. Un'analisi di Intesa Sanpaolo ha messo a confronto i livelli di export dell'anno appena passato con quelli del 2008 e i risultati non sono esaltanti: solo 13 distretti sono andati sopra i livelli del 2008 mentre gli altri ancora arrancano.
QUASI TUTTI i distretti del mobile e dell'elettrodomestico, insieme a quelli dell'edilizia e dei manufatti per la casa, molta parte della meccanica e delle macchine, che sono le tradizionali «punte» del made in Italy. Vanno meglio, ad esempio, alcuni comparti del tessile, il cuoio e perfino le scarpe. La cosa strana è che i settori che sono stati il traino del made in Italy di qualità e più avanzato sembrano fare più fatica dei prodotti tradizionali, quelli che erano stati travolti dall'emergere della concorrenza cinese dei primi anni duemila.
TENDENZE. Dentro questi dati emergono tendenze che però fanno ben sperare per il futuro. La prima è il successo sui nuovi mercati. L'aumento delle esportazioni in Cina dei distretti è stato doppio rispetto a tutto il manifatturiero italiano (81% contro 48%). E non sono ormai quote tanto piccole come una volta. Cina e Hong Kong si collocano ormai al settimo posto negli sbocchi commerciali, non molto distanti da Spagna e Svizzera messi insieme, e la crescita c'è stata anche negli altri nuovi mercati. La seconda tendenza riguarda sono i la resistenza svolta da imprese ormai consolidate e strutturate per reggere anche a crisi come queste.
NEL 2010 il mondo delle medie imprese italiane, censito dalle ricerche di Mediobanca, ha avuto comportamenti sorprendenti: due terzi di esse hanno mantenuto stabile l'occupazione, più o meno altrettante hanno continuato ad investire, la quasi totalità (il 90%) ha tenuto fermo il volume degli ordini ai fornitori, rallentando magari il ricorso alle forniture estere, e tessendo quella rete che è la ragione di sopravvivenza di molta parte del manifatturiero italiano: dalla Luxottica alla Geox e alla Tod's, dalla De' Longhi alla Benetton.
9. Belluno. Metà lavoratori ancora a casa. Chi si è ricollocato ci è riuscito solo con il passaparola. FELTRE. L'ultimo atto è andato in scena in un'atmosfera tesa, nervosa. Sindacati e azienda hanno firmato la mobilità per 49 dei 95 dipendenti della Marangoni gomme. A due anni dall'annuncio della chiusura, oltre metà dei lavoratori sono ancora a casa. E' fallito miseramente il piano di ricollocamento e formazione: «Chi di noi ha trovato un nuovo impiego, lo deve al passaparola», dicono. Marangoni è stata la prima azienda del Bellunese a chiudere i battenti in tempi di crisi. La prima a dimostrare quanto l'equilibrio occupazionale nel Feltrino sia fragile. Venerdì pomeriggio sulla vicenda Marangoni è calato definitivamente il sipario. Ma i protagonisti principali di tutta questa storia, i lavoratori, hanno l'amaro in bocca. «Non è solo per la perdita del lavoro, ma è per come siamo stati trattati», affermano due ex delegati di fabbrica, Ubaldo De Cet e Daniele Dalla Valle. La chiusura della Marangoni viene formalizzata subito dopo l'Epifania 2009. Per molti si tratta del classico fulmine a ciel serenoche lascia operai e impiegati sotto choc. Per altri è la conferma delle voci che già da un po' di tempo giravano tra i corridoi della fabbrica alla Peschiera. Comincia una stagione di lotta, che culmina con alcuni presidi davanti a palazzo Bianco, la sede feltrina di Confindustria. Alla fine, la protesta convince l'azienda ad accordare la cassa straordinaria anziché aprire subito la mobilità. Inizialmente è un solo anno, poi ne scatta un secondo. In mezzo ci sta un percorso di formazione, che secondo le aspettative doveva ricollocare buona parte degli operai. «E invece niente», allarga le braccia De Cet. «Non mi pare che nessuno abbia trovato lavoro». Che il corso non funzionasse era emerso più volte, ma - a due anni dalla chiusura - quello che era un presentimento, adesso è una certezza: «E' stata una presa in giro, una vergogna», ribadisce Dalla Valle. «La maggior parte non ha trovato un impiego. La situazione è allucinante». I corsi organizzati da Uomo impresa vertevano su vari argomenti, dalla saldatura all'aggiornamento degli impianti di antenne tivù in vista del passaggio al digitale. Tutto inutile. «Eppure», ribadisce De Cet, «la partecipazione è stata altissima. Un corso, in particolare, è stato organizzato a Longarone, con tutti i costi di trasporto sulle nostre spalle». «La sensazione», prosegue Dalla Valle, «è che la politica e i nostri amministratori non abbiano fatto a sufficienza». Eppure gli impegni e le promesse non sono mai mancati. Per De Cet resta la questione dello stabilimento: «Che fine farà?», si chiede, «è praticamente nuovo». Se 49 persone hanno firmato per la mobilità, altri sono comunque a casa: «Sono quelle persone che l'hanno chiesta prima così da poter avere la liquidazione. Alcuni - con 700 euro al mese - non riuscivano a far fronte alle spese della famiglia». I lavoratori che hanno trovato lavoro sono poche decine: «Quasi tutti contratti a termine tra Manfrotto, Luxottica, Paulin, tra le poche realtà che si sono dimostrate davvero sensibili», sottolinea De Cet. Il periodo di mobilità varierà da persona a persona, a seconda dell'età e dell' anzianità aziendale. «Abbiamo i mesi contati e la crisi non accenna a diminuire», continua Dalla Valle. «Anche chi vuole mettersi in proprio, non lo può fare. Chiedono garanzie che non potremo dare». Un appello alla politica? «Forse è meglio di no», afferma Dalla Valle. «Ne abbiamo già fatti abbastanza e non hanno sortito nessun effetto».
10. Genova. Nasce il museo della rumenta. A Genova la spazzatura diventa arte e va in museo. Il "Museo della rumenta" (rifiuti in dialetto genovese) sara' inaugurato nel novembre 2011 ai Magazzini dell'Abbondanza nel Porto Antico, in occasione del Festival della Scienza.
Lo ha annunciato Pinuccia Montanari, assessore comunale all'Educazione ambientale, nel corso del seminario organizzato dal Comune di Genova e da Themis - scuola per la pubblica amministrazione, sul programma di prevenzione dei rifiuti finalizzato alla sostenibilita' di gestione.
Il nuovo museo offrira' a visitatori, turisti, studenti e curiosi le nozioni essenziali sul ciclo dei rifiuti, sul loro riutilizzo, sulla raccolta differenziata, e sull'arte fatta coi rifiuti. "Questa idea - spiega Montanari - nasce in primo luogo dal Piano per la riduzione dei rifiuti della giunta comunale approvato questa estate.
La produzione annuale di rifiuti a Genova é tanta, 550 kg per abitante. Abbiamo colto una proposta di Renzo Piano, che tra l'altro ci ha anche dato una mano con Urban Lab a mettere in campo il progetto, di fare a Genova un museo della spazzatura, un museo, pero', interattivo".
La struttura genovese avra' quattro sezioni: una conterra' un laboratorio con exhibit, cioe' luoghi in cui si potranno sperimentare i progetti in modo interattivo; un'altra sara' la parte artistica che mostrera' rifiuti diventati oggetti d'arte; la terza sezione sara' dedicata al riciclo e la quarta alla green economy, evidenziando le potenzialita' dei rifiuti di avere una seconda vita dopo il consumo.
"Questa nuova logica con cui affrontare il ciclo di gestione dei rifiuti e' indicata dalla Commissione Europea nella direttiva del 20 novembre 2008, in base alla quale nel ciclo di gestione dei rifiuti le pubbliche amministrazioni in via gerarchica devono predisporre piani di riduzione dei rifiuti, mettendo quindi al primo posto la riduzione, poi la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio, la raccolta differenziata, il recupero energetico da fonti rinnovabili. Bisogna trasformare - esorta Montanari - il grande nodo della gestione dei rifiuti, che sta assumendo un peso sempre piu' rilevante, in un'opportunita"'.
Al museo nel Porto Antico dovrebbe affiancarsi un museo on line che consentira' di visitare in rete le parti piu' importanti della struttura e di mettere a disposizione dei cittadini e delle amministrazioni locali d'Italia e d'Europa il materiale informativo.
11. Trento. Cetto La Qualunque i trentini apprezzano. 23/01/2011 09:32. TRENTO - Un politico interessato più a vendere la propria immagine che al bene comune, che si attornia di vassalli pronti ad assecondarlo in ogni suo capriccio per tornaconto personale, un cantore dell'individualismo e teorizzatore della «scorciatoia» più o meno legale, più o meno etica, per fare strada nella vita. Verità o fantasia? Ognuno può darsi la risposta che crede e convincersi che sia quella giusta. Di certo questa è la realtà rappresentata nel nuovo film di Antonio Albanese, «Qualunquemente». Un film che tenta di interpretare la politica di oggi con poche idee e pochi valori. È uno spaccato dell'Italia di oggi, «dell'avanguardia del peggio che avanza, che riproduce scenari sempre più tristemente comuni e purtroppo sempre meno disprezzati» racconta qualche recensione.
È la storia di Cetto La Qualunque, caricatura di un imprenditore calabrese corrotto che, tornando in paese dopo anni all'estero, scopre che un'ondata inedita di legalità sta minacciando i suoi interessi e le sue proprietà. Così, dopo la proposta avanzata dai «ras» del posto e il consulto di procaci e poco vestite donne, fonda il partito «du pilu» e decide di candidarsi a sindaco. Venerdì la «prima» in tutte le sale d'Italia ha sbancato i botteghini. E Trento non è stata da meno. Poltroncine della sala 3 del cinema «Modena» prenotate fin dal pomeriggio per tutte due le proiezioni della sera: 440 persone che per niente al mondo hanno voluto perdersi la comicità di Albanese, anche se forse non del tutto sicure se la finzione fosse dentro o fuori dal proiettore.
«Di sicuro qui si ride, ma fuori mica tanto» commentano Enzo e Maria Teresa Boso . Per loro «la realtà ha superato la fantasia». Nel film? «No, fuori». «Perché - dice lui - non c'è più da meravigliarsi di quello che sta succedendo: gli italiani si sono seduti e accettano passivamente quello che viene loro propinato». «È il degrado della cultura» chiosa la moglie. Marco Cattani è in «postazione» con i nipoti già alle 19.15. «Ci piace la comicità di Albanese e da tempo avevamo in programma di esserci - spiega - Certo che gli ultimi eventi l'hanno reso ancora più attuale, sebbene fosse stato scritto due anni fa. In ogni caso, anche se si detesta quello che sta accadendo, non è stata la stretta cronaca a farci venire al cinema». «Albanese - prosegue - è un artista geniale perché è riuscito ad anticipare i tempi». E il politico? «Personaggio schifoso, deplorevole il suo modo di fare politica, anche se purtroppo è uno spaccato della situazione attuale». Massimo e Marica Martinelli confessano «di non andare al cinema da 5 anni, a causa dei bambini».
Ma i «maneggi» di Cetto La Qualunque valgono tutta una sera lontano dai pargoli. Con che spirito? «Quello di essere tristemente consapevoli che, purtroppo, il film è amara verità». Il giudizio su Cetto è tranciante: «Uno così non dovrebbe essere in politica. Uno fa quello che vuole a casa sua, ma se sta sulla scena pubblica un po' di decorosa dignità dovrebbe mostrarla». Chissà se il riferimento è tutto per Cetto, l'imprenditore calabrese di Marina di Sopra o se il pensiero non corra verso altri lidi e verso altre dimore. Certo è il fatto che nessuno nomina mai Berlusconi. Forse non serve. «Albanese ha detto che Cetto è moderato rispetto alla realtà: mi sa che ha ragione». Diego Fioravanti è al Modena assieme agli amici Mattia Colombo e Marco Balduzzi . Il quale constata che «un politico così non sarebbe degno di stare lì dov'è». Mattia amplia il concetto: «Una persona che si comporta come Cetto non dovrebbe nemmeno permettersi di pensare a candidarsi, e invece...». Invece cosa? «Abbiamo imparato a non meravigliarci più di nulla con certi politici». E allora che si fa? Si fa la rivoluzione? No, si va al cinema.
«Peccato che la comicità sia stata superata dall'attualità» commenta ironica Lella Valcanover . Agostino Gambino , lì con lei, conferma: «La finzione assomiglia tanto alla realtà». Cambieranno mai le cose? «Finché c'è "qualunquemente" non ne usciremo, ma tutte le cose prima o poi passano». «Se è vero, siamo fuori da ogni logica» è il commento, ancora prima di aver visto la storia al cinema (ma non quella raccontata sui giornali) di Claudio Bortolotti , ex grande capo della Protezione civile trentina. «Sinceramente non avrei mai detto che potesse effettivamente succedere quello che sta venendo fuori». Albanese, invece, l'aveva predetto ancora due anni fa. Genialità o occhio lungo?

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