venerdì 8 aprile 2011

Il Sud malato senza (veri) ospedali

Roberto Turno e Paolo Del Bufalo – Il Sole 24 Ore.
Appena la settimana scorsa è stata Bankitalia, nell'audizione sul federalismo fiscale, a rilanciare l'allarme Sud per la sanità pubblica. I pazienti che si ricoverano fuori Regione – ha detto – sono l'indice della «qualità delle cure e della capacità produttiva delle strutture sanitarie» assolutamente carenti del Meridione dove i servizi sanitari «sono peggiori che nella restante parte del Paese».




Pazienti che scappano al Nord in cerca di cure, parti cesarei a go-go, ricoveri evitabili, piccoli ospedali. Il Sud, vero grande malato della sanità italiana. Una diagnosi che dà ragione a chi vede nel federalismo, ma quello solidale, la cura migliore per far uscire dal baratro Asl e ospedali del Mezzogiorno.
Male nei conti, peggio nelle cure. Ultimo due volte, il Sud. Un paradigma che la forza delle cifre sui ricoveri nel 2009 appena forniti dal ministero della Salute e trasmessi dalle Regioni – come anticipato dal settimanale Il Sole 24 Ore Sanità – conferma in pieno. Non senza eccellenze. O inappropriatezze organizzativa pure al Nord.
Già a leggere in controluce i dati sui pazienti che emigrano per curarsi si capisce come vanno le cose. Le "top 5" fra le strutture che ricevono pazienti da fuori Regione sono tutte al Centro Nord. In ordine: Policlinico Gemelli di Roma (12.796 ricoveri per "acuti"), l'azienda di Pisa (11.703), il San Raffaele di Milano (11.526), il Sant'Orsola Malpighi di Bologna (10.501), il pediatrico Bambino Gesù di Roma (9.387). Nel 2009 a spostarsi dal Sud sono stati 372mila pazienti, per una perdita di 1,26 miliardi. Campania ultima della classe: ha visto uscire 89.119 pazienti (ed entrarne 26.736) e perdere oltre 316 milioni nel bilancio 2010, seguita da Calabria e Sicilia. E non è certo un caso che dei 10,37 miliardi di deficit 2007–2009 dell'Ssn, 5,8 sono stati realizzati tutti al Sud: il 55 per cento. Il Lazio ha aggiunto altri 4,65 miliardi.
Questo dicono i conti economici. Ma a raccontare di un Sud in affanno sul fronte delle cure sono anche altri indici. Quelli di appropriatezza organizzativa e clinica da parte delle strutture ospedaliere.
I dati delle cosiddette "Sdo 2009" (le schede di dimissione ospedaliera), scremati dai casi limite o dubbi, rivelano troppi conti che non tornano. Valgono fra tutti – non a caso citati da Bankitalia – almeno quattro esempi emblematici di ciò che non si dovrebbe fare negli ospedali. A cominciare dalle fratture di femore, che tipicamente vanno operate entro 48 ore: Campania (solo il 15,8% entro i due giorni), Puglia (16,53) e Sicilia (17,50) sono le peggiori; le performance migliori sono a Bolzano (83%), nelle Marche (59,43%) e in Toscana (53%). La classifica degli ospedali pubblici è impietosa: il San Paolo Ovest di Napoli opera entro 48 ore solo nello 0,7% dei casi, l'ospedale civile di Sassari nell'1% e il Maddaloni di Caserta nell'1,1 per cento. Curiosamente il migliore capiterebbe in Campania: il San Francesco di Salerno opera in due giorni nel 98,4% dei casi, seguito dall'ospedale toscano di Piombino (94,5%) e dal Monteccchio in provincia di Vicenza (87,5%).
Altro indice d'inappropriatezza, altre montagne russe per il Sud. L'abbondanza di (più costosi) parti cesarei: Campania (62%), Sicilia (53%) e Molise (48%) preferiscono il bisturi al parto naturale contro una media nazionale del 38,36% già più elevata delle raccomandazioni Oms (15-20% al massimo). Classifica da brividi quando ci si sintonizza sui singoli ospedali: a Policoro in Basilicata il cesareo vien fatto al 58%, a Colleferro (Roma) al 55%, al Bonomo di Andria in Puglia al 53 per cento. Ma attenzione, i cesarei si fanno senza pensarci troppo soprattutto nelle case di cura private accreditate, che hanno sempre valori elevati: a Palermo nella casa di cura Serena i cesarei valgono l'82% dei parti, a Napoli il Villa Maione usa il bisturi nel 76% dei casi, nella clinica Demma di Palermo al 71 per cento. Ma, curiosa Italia, secondo le Sdo a fare meno cesarei è poi l'Umberto I di Salerno (6,4%), seguito dal Vittorio Emanuele III di Carate Brianza in Lombardia (8,5%) e ancora a Napoli dai Riuniti dell'area stabiese (9,1%). Se le Sdo date dalle Regioni sono vere.
Ricovero che valuti, Sud che arretra. Non sarà un caso che dal Lazio in giù la degenza pre-operatoria sia più lunga. Restare ricoverati troppo a lungo prima di un'operazione ha i suoi costi. La media nazionale di ricovero pre-operazione è di 1,88 giorni: nel Molise diventa 2,54, nel Lazio 2,49, in Basilicata 2,37. Contro le performance delle Marche (1,32 giorni), della Toscana (1,47) e del Piemonte (1,58). Sono nel Lazio i tre ospedali dove si aspetta di più: tra 5 e 6 giorni ad Amatrice, Rocca Priora e Ceccano. Intanto negli ospedali di Città della Pieve (Umbria), Tolentino (Marche) e Umbertide (ancora in Umbria) si fa tutto in poche ore. E che dire degli ospedali di Stigliano (Matera), di quello in odore di chiusura (o forse no) di Trebisacce e di San Giovanni in Fiore (entrambi in provincia di Cosenza): i ricoveri impropri nei reparti chirurgici – indice d'inappropriatezza tra i più gravi di uso degli ospedali – sono tra il 94 e il 97% del totale. E dire che la media nazionale è del 34 per cento. Con casi che tra Marche (Sassocorvaro) e Piemonte (riuniti di Asti) scendono tra lo 0,24 e l'1,08 per cento.
Ma si potrebbe fare un'altra classifica. Da tempo si spingono gli ospedali a non effettuare in ricovero determinate prestazioni, ma di eseguirle in day hospital se non in ambulatorio. Sono in tutto 108, dalla cataratta alla tonsillectomia all'appendicectomia. Senza ricoveri si risparmierebbero cifre miliardarie. Ora, è chiaro che non tutto è sempre possibile, che la scienza medica si divide, che gli stessi pazienti spesso non ci stanno, che non sempre esiste un'organizzazione adatta. Ebbene, ancora le Regioni ci fanno sapere che suddividendo gli ospedali tra grandi e piccoli nella media di ricoveri, la maggior parte dei casi d'inappropriatezza totale è al 54% al Sud. Va malissimo al Civile di San Giovanni in Fiore (Cosenza), a quello di Partinico in Sicilia, all'Inrca in Sardegna, alla Casa del Sole Lanza di Trabia in Sicilia, al Corato di Ruvo (Puglia), al Dettori di Tempio (Sardegna), al Lastaria (Puglia), ai Riuniti Golfo Vesuviano (Campania), al San Timoteo di Termoli (Molise). L'elenco sarebbe infinito. Con presenze delle Marche (Cingoli, Loreto, Tolentino) e del Lazio (l'Oftalmico di Roma, Pontecorvo, Cassino, Anagni). Senza trascurare casi anche in Lombardia che si danno in risalita (Melegnano, Chiari, Vimercate).
Certo non è un caso se l'ultimissimo rapporto della Cattolica di Roma indica i pazienti più insoddisfatti tra Molise, Campania, Puglia e Abruzzo. Al Nord e in Toscana si gradisce di più. E che dire della comunicazione online ai cittadini sulle liste d'attesa? Al Sud spesso si deve viaggiare sui siti col lanternino, se i siti ci sono. Qualcuno fornisce "zero comunicazione": gli ospedali azienda di Calabria, Puglia e Basilicata. E tra le Asl le isole infelici online sono in Calabria, Puglia e Lazio. Pazienti traditi un'altra volta. Anche perché intanto pagano più ticket e più tasse per i deficit dove la sanità è commissariata o sotto piano di rientro.
I VIAGGI DELLA SPERANZA
1,26
Miliardi di euro
Sono i costi che le Regioni del Sud sostengono in cerca di cure nelle strutture del Nord, che registra un saldo positivo di 850 milioni.
836mila
I viaggi per curarsi
Nel 2009, 836.771 pazienti si sono spostati in cerca di cure in strutture di altre Regioni. Il 45% viene dal Sud Italia.


Il federalismo mette in gioco fondi non usati per le strutture
R. Tu.
Con i costi standard del federalismo fiscale sono rimaste (quasi) a bocca asciutta. Chiedevano per la distribuzione delle risorse il riconoscimento della "deprivazione", cioè delle più sfavorevoli condizioni socio-economiche che inciderebbero sui maggiori costi sanitari sopportati. In poche parole: va bene l'efficienza, d'accordo (ma non troppo) sui costi standard. Ma garantiteci più denari.
Non è andata esattamente così per le Regioni del Sud. Anche se poi – aspettando i costi standard che in prima battuta verranno sperimentati nel 2013 sulla base dei bilanci di quest'anno – qualcosa i governatori del Mezzogiorno l'hanno spuntata: la possibilità di compensare le carenze strutturali (ma non solo loro: anche per le piccole isole o le aree montane più disagiate) che incidono sui costi delle prestazioni. Carenze strutturali che terranno conto d'indicatori socio-economici e ambientali da costruire. Ma attenzione, precisa il decreto sui costi standard: prima d'incassare altri fondi, chi avrà riconosciuto il deficit d'infrastrutture dovrà usare quelle risorse per l'edilizia sanitaria messe in moto ormai 33 anni fa con la Finanziaria per il 1988. Risorse che proprio al Sud sono rimaste nei cassetti: niente progetti, scarso utilizzo di fondi. Spreco, insomma. E ulteriore decadimento di un patrimonio edilizio e tecnologico sanitario già di per sé arretrato. Salvo vantare il record degli ospedali fantasma: quelli avviati e mai terminati. Decine e decine di strutture, alcune risalenti anche alla gloriosa ex Cassa per il Mezzogiorno. Centinaia di miliardi di lire dell'epoca.
Da mercoledì prossimo, intanto, i governatori del Sud riaprono lo scontro per la distribuzione dei 106 miliardi per il 2011, ancora in cassaforte perché non ripartiti. Anche qui chiedono la "deprivazione": ma non l'avranno, è sicuro. Come ormai da anni, se ci sarà accordo si cercheranno compensazioni tra le Regioni per cercare di pareggiare i conti, se mai fosse possibile. Fatto sta che proprio in questi giorni l'emergenza immigrazione – che porta costi sanitari in più – ha riaperto la discussione. E il Sud, che sta dando di più per fronteggiare l'esodo dall'Africa, potrebbe farsi forte di questa generosità che altre Regioni, anzitutto quelle a trazione leghista, non stanno dimostrando.


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