mercoledì 24 novembre 2010

"Noi, illusi della Tigre celtica"

Editoriali
24/11/2010 - ANALISI
JOHN WATERS*
La recessione ormai doveva essere quasi finita. Questa era l’opinione generale, anche secondo le voci più scettiche e critiche verso le maldestre risposte del governo irlandese alle prime avvisaglie della crisi, nel 2008.

Avremmo avuto davanti a noi, ci dicevano, due anni difficili, di sacrifici. Avremmo dovuto accettare cambiamenti radicali del nostro stile di vita. Eccettuata una manifestazione di piazza a Dublino, di pensionati che protestavano contro i tagli dei loro redditi, nessuno ha fatto molto di più che lamentarsi.

Sabato prossimo ci sarà un’altra manifestazione, organizzata dal congresso irlandese dei sindacati, contro il contenuto delle prossime misure di bilancio per far fronte alla crisi. L’approvazione del bilancio è prevista per il 7 dicembre, e il Taoiseach (primo ministro) ha già annunciato che le elezioni si terranno non appena il programma di ripianamento sarà approvato dal parlamento nazionale. È stato costretto a questa decisione lunedì quando il partner minoritario della coalizione, il Partito dei Verdi, ha annunciato che non appoggerà più il governo del Fianna Fail dopo l’approvazione del bilancio. La gente ci sta ancora pensando: a che servirà il voto dopo che tutto è stato deciso? Il presunto popolo sovrano sarà invitato a votare per rifare il trucco alla squadra al comando incaricata di eseguire le istruzioni del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea? Non sembra corrispondere ai concetti di democrazia fissati dalla Costituzione irlandese. E tuttavia, quale potrebbe essere l’alternativa? Nell’urgenza, la prospettiva di un vuoto amministrativo mentre il sistema politico entra nel processo elettorale, senza che il popolo abbia alcuna possibilità di intervenire sugli aspetti più vitali delle fortune nazionali, non minaccia di peggiorare ancora di più la situazione? Potremmo trovarci, nel giro di altri due anni, in una situazione ancora più precaria? Nessuno è disposto a prevedere il contrario.

Gli irlandesi sono sconcertati, addolorati e arrabbiati, ma più semplicemente, confusi. La maggior parte delle persone, quando parla onestamente, ammette di avere solo una vaga idea di quanto sta accadendo. Soprattutto, non capiscono perché le cose sono peggiorate dopo due anni di austerità. Non capiscono perché non è stato possibile fermare la deriva del sistema bancario o almeno eliminare gli elementi più deboli. Si chiedono anche perché la situazione economica dell’Irlanda sia oggetto di tanta preoccupazione internazionale. Come abbiamo fatto a legarci a tal punto agli obbligazionisti internazionali e perché non sono stati chiamati a subire le conseguenze delle loro speculazioni sbagliate? Perché anche se l’economia nazionale sembra funzionare un po’ meglio di quanto abbia fatto da diversi anni a questa parte, ciò non sembra contare nulla? Quanto di questo ha a che fare con la nostra appartenenza alla zona euro?

Tra molti cittadini gira il sospetto che la spiegazione abbia a che fare con l’incompetenza del governo. I politici irlandesi - e non solo quelli al potere - hanno davvero una buona ragione per sentirsi in imbarazzo per non essere riusciti a prestare la dovuta attenzione alla squilibrata e inopportuna dipendenza dell’economia irlandese dalle tasse generate dalla bolla immobiliare negli anni del boom. Il primo ministro e il ministro delle Finanze hanno motivo di sentirsi in colpa per il modo in cui hanno gestito la crisi negli ultimi due anni, respingendo bruscamente a ogni fase le iniziative che poco dopo sarebbero sono stati costretti ad adottare. Mentre loro tergiversavano un problema gestibile è diventato un Armageddon economico.

E tuttavia, sotto traccia rispetto al complesso nodo di pubblica rabbia, dolore e incomprensione, si trovano alcuni altri elementi più sottili che potrebbero fare sì che il popolo irlandese si arrenda semplicemente al proprio destino. Uno di questi ha a che fare con i postumi lasciati nell’opinione pubblica dallo scoppio di euroscetticismo diffusosi tra l’elettorato irlandese durante gli ultimi anni di prosperità. Un iniziale rifiuto del trattato di Lisbona al referendum dell’estate 2008, poco prima che iniziasse la crisi, fu rovesciato da un elettorato piuttosto bovino un anno più tardi, dopo che l’arroganza nata dal benessere aveva lasciato il posto a un rinnovato realismo sulla nostra dipendenza dai partner europei. Ora, c’è questa strana situazione: la dipendenza irlandese dall’Ue non è mai sembrata maggiore, mentre la fede nell’istituzione non è mai stata così in declino.

Il leader del Partito dei Verdi ha parlato lunedì dell’«inaccettabile erosione della sovranità irlandese» implicita nell’arbitrato di Fmi e Ue, ma la maggior parte della gente sospetta che la perdita della sovranità sia avvenuta da tempo. Per molti anni gli irlandesi sono stati rassicurati dai loro capi politici e culturali: la sovranità era una vacca sacra che vigilava sull’Irlanda e i suoi interessi. Ma sotto questi tentativi di razionalizzazione sacche di vergogna e di colpa servono a diluire la pubblica rabbia, il dolore e le recriminazioni. La maggior parte della gente ha una o due colpe segrete che riguardano gli anni buoni: una casa delle vacanze in Bulgaria, uno di quei conti di risparmio speciali a cui bizzarramente il governo accettò di attribuire il tasso del 26 per cento (al costo di 3 miliardi di euro per il Fisco). Questi segreti possono garantire una relativa passività tra il pubblico irlandese mentre ci si avvia goffamente all’austerità. Uno dei pochi successi del governo negli ultimi tempi è stato l’impianto nella coscienza pubblica dell’idea che tutti abbiano avuto un ruolo nella caduta dell’Irlanda. I dati di raffronto non lo confermano ma l’idea stessa porta molte persone a sentirsi un po' incerte nel dare libero sfogo alla rabbia. Nel profondo dei loro cuori, malgrado l’evidenza sia diversa, sospettano che l’accusa possa contenere un minimo elemento di verità. In verità, il debito complessivo di 400 miliardi accumulato dal settore bancario irlandese ha poca o nessuna base in qualsivoglia beneficio concesso al grande pubblico. È innegabile che molti cittadini siano caduti vittima di una vertigine consumistica durante gli anni della Tigre celtica, ma questi peccati erano veniali rispetto a quelle dei banchieri, dei promotori finanziari e dei leader politici. Anche sommando tutte le nostre follie private non si arriva che a una frazione del conto da pagare per la banca più tossica d’Irlanda, la Anglo-Irish bank, con i suoi 50 miliardi di euro di debito, in gran parte derivanti da enormi progetti di sviluppo.

Inoltre, guardando più da vicino le condizioni di fondo, appare evidente che, qualunque follia si possa essere impadronita degli irlandesi, questa è stata quasi un inevitabile sottoprodotto dei vistosi cambiamenti economici innescati dall'introduzione dell’euro.

Bisognerà scrivere un libro un giorno, raccontando come alcuni complessi malfunzionamenti del desiderio umano abbiano inciso drammaticamente a livello psicologico, come una nazione abituata alla miseria e alla frugalità sia stata improvvisamente messa di fronte a una prospettiva di prosperità e benessere e abbia fatto ciò che gli esseri umani quasi invariabilmente tendono a fare. Tale analisi dimostrerà probabilmente che non si trattava di un problema individuale ma di una forma di spericolato stimolo imposto dall’esterno. Ma per ora, una tale analisi è un lusso che difficilmente possiamo permetterci.
* editorialista dell’«Irish Times»
(traduzione di Carla Reschia)
Fonte: 
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8127&ID_sezione=29&sezione=#


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