lunedì 3 gennaio 2011

2011, pandemia globale, forse

Il 2011 sarà all'insegna delle tensioni. Ripresa sì, ma debole e frammentata, di Fabrizio Goria.
Manovre Ue per l'instabilità, di Hans Werner Sinn.
3 Gennaio 2011


1. Il 2010 doveva essere l'anno della ripresa, è stato quello dell'austerity. Gli ultimi 12 mesi sono stati caratterizzati dall'evoluzione della crisi finanziaria internazionale, divenuta prima economica e poi statale. Da un lato gli Stati Uniti stanno combattendo con un'economia che stenta a ripartire. Dall'altro l'Europa sta cercando di guarire dall'epidemia dei debiti sovrani in cui è sprofondata dopo il crollo di Grecia e Irlanda. In mezzo l'Italia, eternamente combattuta fra una crescita anemica e un indebitamento in ascesa. Archiviata la definizione di exit strategy, per l'economia globale il 2011 si appresta a essere più duro dell'anno precedente. Infatti, oltre a definire il nuovo assetto mondiale della regolamentazione finanziaria, i governi mondiali devono anche porre fine all'emorragia di denaro pubblico e all'impennarsi della disoccupazione. Si tratta però di una ferita che viene da lontano.
A fine 2009 c'è stata l'esplosione della crisi greca, culminata nel maxi intervento da 110 miliardi di euro da parte di Banca centrale europea (Bce) e Fondo monetario internazionale (Fmi), avvenuto in maggio. I primi vacillamenti dell'economia ellenica sono avvenuti nello scorso dicembre, ma in pochi avrebbero immaginato un epilogo così devastante. Colpa di una finanza pubblica ballerina, un sistema bancario precario e una corruzione dilagante. Ma colpa anche dei magheggi contabili compiuti dal governo greco insieme con la banca d'affari statunitense Goldman Sachs, capace di procrastinarne i debiti tramite operazioni ardimentose. Solo con misure draconiane sul piano statale il primo ministro George Papandreou è riuscito a ottenere il sostegno finanziario internazionale, ma rimangono comunque i dubbi sul raggiungimento degli obiettivi di bilancio.
Dopo Atene, Dublino e poi chissà. Con la caduta della Grecia, sono emerse tutte le malversazioni in cui versano le economie europee. Irlanda, Portogallo, Spagna, Ungheria: sono queste le nazioni che hanno vissuto, in modo più o meno aggressivo, la furia degli investitori. Quest'ultimi, in cerca di un porto sicuro, hanno dirottato i propri interessi verso Germania e Francia, lasciando nel baratro i più deboli. Così, quella che era una crisi immobiliare nata negli Usa, si è trasferita all'Europa in maniera dirompente, costringendo Bruxelles a interventi via via più straordinari al fine di mantenere la stabilità dell'euro. E la reazione è stata forte. Lo European financial stability facility (Efsf), il fondo europeo di stabilizzazione finanziaria da 750 miliardi di euro (di cui 440 appannaggio dell'Ue, il resto di Bce e Fmi), ha proprio questo obiettivo.
Il primo utilizzo dell'Efsf è stato a Dublino. Infatti, proprio l'Irlanda che era considerata, per vigore economico e snellezza legislativa, la tigre celtica, è caduta nella morsa del debito. Nel corso del 2010 il disavanzo di bilancio si è impennato al 32 per cento del Pil, oltre 10 volte i parametri di Maastricht. La soluzione si è raggiunta solo poche settimane fa e ha visto nuovamente protagonisti il Fmi e la Bce. Ma c'è già chi, come l'economista della New York University Nouriel Roubini, afferma che gli 85 miliardi di euro stanziati a favore di Dublino non potranno arginare l'epidemia del debito irlandese. E dopo? Il percorso è già tracciato, secondo la banca britannica Barclays Capital, che in un'analisi di inizio dicembre lascia poco spazio ai sorrisi: “Dopo la Grecia e l'Irlanda, salteranno il Portogallo, stritolato dall'immobilismo politico, e la Spagna, soffocata dalla bolla immobiliare. Poi, se l'Eurozona sopravviverà, toccherà all'Italia”.
La ricerca di una continuità nella ripresa economica è stato il leit motiv in Europa, come negli Stati Uniti. Il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, di fronte allo spettro di una stagnazione dell'economia americana ha varato un nuovo piano di stimoli monetari, il Quantitative easing 2, acquistando titoli di Stato per oltre 600 miliardi di dollari. Eppure, il responso dei mercati finanziari è stato tiepido. Analogamente, anche la Bce ha continuato a inondare l'Eurozona di liquidità. Duplice l'obiettivo: calmierare le tensioni sui debiti sovrani e far ripartire il ciclo dei consumi. Nemmeno questo però è bastato. E a Francoforte stanno già pensando a nuove soluzioni.
C'è poi l'Italia. Considerata dalla stampa internazionale come una delle nazioni più a torto colpite dalla furia dei mercati, sta però vivendo una fase controversa. Se da un lato il deficit è rimasto quasi invariato al 5,3 per cento del Pil, dall'altro la crescita è anemica e il debito ha sfiorato il 1.850 miliardi di euro. Se a questo quadro aggiungiamo la bagarre politica iniziata in estate, le previsioni non possono essere rosee. Certo, le agenzie di rating non hanno in programma una revisione del loro giudizio, ma l'incertezza è quanto di peggiore un investitore possa attendersi da una nazione. A tal punto che la casa d'affari Bank of New York Mellon, in un report dello scorso novembre, ha definito “imprevedibile” la congiuntura italiana. “Il debito per l'Italia non è un problema, ma se ci dovesse essere un cambio nella guida politica, potrebbe essere utile cercare di trovare soluzioni più sicure”, spiega la banca statunitense. In altre parole, meglio continuare con la strada intrapresa.

Sul fronte della regolamentazione molto è stato fatto, ma non abbastanza. Il presidente del Financial Stability Board (Fsb) e governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ai G20 di Pittsburgh e Seoul ha posto le basi per un rinnovamento della finanza globale, ma le nuove regole sono ancora lungi dall'essere legge. Quello che è sicuro è che ora la maturità delle economie emergenti – Brasile, Russia, India e Cina su tutte – è completa. Non è un caso quindi che siano i paesi Bric a essere la vera locomotiva globale.
Il 2011 che ci attende non vedrà ancora l'exit strategy. Come ha sottolineato a fine novembre la lobby dei banchieri europei, l'Association for Financial Markets in Europe (Afme), “siamo in un periodo di transizione da un modello finanziario a uno nuovo, ancora completamente da definire”. Tuttavia, ricorda l'Afme, “fintanto che non saranno finite le tensioni internazionali non si potrà pensare di comprendere quale strada intraprendere”. Il problema è che nulla sembra essere in grado di tranquillizzare i mercati. L'impressione è che, più che ad arginare un contagio finanziario, nel 2011 i governi si troveranno a combattere contro una pandemia globale.

2. L'Europa era destinata a diventare, entro il 2010, «la società basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica a livello mondiale». Così, almeno, aveva proclamato ufficialmente la Commissione europea nel 2000 nel contesto dell'Agenda di Lisbona. La scadenza è passata e ormai è ufficiale: l'Europa ha il record di crescita più lenta a livello mondiale. Se infatti i membri della Ue sono cresciuti del 14% negli ultimi dieci anni, il Nord America è cresciuto del 18%, l'America latina del 39%, l'Africa del 63%, il Medio Oriente del 60%, la Russia del 59%, Singapore, la Corea del Sud, l'Indonesia e Taiwan del 52%, l'India del 104% e la Cina del 171 per cento.
Gli europei avevano pensato di raggiungere i propri obiettivi attraverso, tra le varie cose, una migliore protezione ambientale e una coesione sociale più forte. Obiettivi ammirabili, ma che non rappresentano delle strategie di crescita. L'Agenda di Lisbona si è rivelata, infatti, una farsa.
Il patto europeo di stabilità e crescita del 1995 non ha avuto un percorso migliore. I paesi Ue hanno concordato di limitare i loro deficit fiscali al 3% del Pil per assicurare un contenimento del debito in euro, in modo tale che nessun paese potesse utilizzare la nuova valuta per rendere ostaggi i suoi vicini forzandoli a compiere operazioni di salvataggio. Nella realtà dei fatti i paesi Ue sono andati ben oltre il 3% stabilito per 97 volte. In 29 casi le violazioni sono state concesse dalla dicitura originale del patto, visto il contesto di recessione in cui si trovavano i paesi. Ciononostante, gli altri 68 casi di eccedenza del 3% del Pil hanno rappresentato un'evidente violazione del patto ai quali l'Ecofin avrebbe dovuto rispondere con l'imposizione di sanzioni. Ma nessun paese è mai stato penalizzato.
Le restrizioni legate al debito politico che i membri dell'eurozona si sono autoimposte non sono mai state prese sul serio in seguito a quel contesto, in quanto i peccatori e i giudici si sono sempre trovati dalla stessa parte della barricata. Un soggetto degno di Kafka.
Nel 2010 poi due paesi, la Grecia e l'Irlanda, sono stati salvati dal resto dell'Europa anche se, in base all'articolo 125 del trattato Ue, nessuno stato membro può prendersi carico del debito di un altro stato membro. Questa dottrina di dura disciplina è stata abolita con un sol colpo nel maggio del 2010 quando ci si è trovati di fronte a un collasso mondiale che non si sarebbe potuto evitare senza l'intervento diretto della Germania.
Il fatto che sia stata data la possibilità alla Grecia di unirsi all'euro con una semplice frode, ovvero dichiarando un rapporto deficit/Pil al di sotto del 3% quando in realtà era ben al di sopra, rende emblematico il lassismo con il quale è stato definito il patto di stabilità e crescita.
La Germania, da parte sua, ha deciso di aprire il suo portafogli ed è stato il primo paese a intervenire per salvare la Grecia. Inoltre, al vertice che si è tenuto prima di Natale, i capi di stato europei hanno deciso di modificare il trattato Ue legittimando lo strumento europeo per la stabilità finanziaria, ora ribattezzato strumento per la stabilità europea, e trasformandolo in un'istituzione permanente. Una volta tornata a casa, Angela Merkel, che per mesi aveva insistito per chiudere questa struttura, ha considerato questo passo come una vittoria sul resto dell'Europa. Si è trattato, infatti, di una concessione necessaria alla Corte costituzionale tedesca che aveva sollevato la questione della mancanza di basi legali nelle misure di salvataggio. La partecipazione delle banche creditrici, che da lungo tempo sono state la conditio sine qua non per la Merkel, è stata ora relegata allo status di opzione.
Anche la Bce ha perso la sua credibilità. Un anno fa ha promesso di non accettare più titoli di stato con rating BBB come garanzia collaterale per le sue operazioni monetarie. Ma anche questa promessa è stata messa da parte a maggio, quando la Banca ha iniziato a comprare anche le obbligazioni greche ad alto rischio annunciando, nel frattempo, la duplicazione del proprio capitale.
Le manovre della Ue potrebbero stabilizzare l'Europa a breve termine e aiutarla ad affrontare in modo migliore gli attuali attacchi speculativi su alcuni titoli di stato, ma potrebbero comunque rischiare di portarla alla destabilizzazione a lungo termine. Se da un lato il contagio finanziario è oggi limitato alle interazioni bancarie, dall'altro le misure europee hanno ampliato i canali di contagio arrivando a intaccare i budget pubblici.


È pur vero che il primo passo verso una catena potenziale di insolvenze pubbliche in Europa è stato fatto. Ma sebbene il rischio sia oggi limitato, sarebbe sempre più grande nel caso in cui lo strumento europeo per la stabilità finanziaria diventasse un'assicurazione a piena copertura contro le insolvenze, senza la condivisione di alcun peso tra i creditori. In vista dei prevedibili rischi demografici derivati dal diritto alla pensione, potrebbe essere stata innescata una bomba a orologeria.
Ogni volta che i politici tentano di contrastare le regole ferree dell'economia, perdono. E anche in questo caso è andata così.
Hans-Werner Sinn è professore di economia e finanza pubblica presso l'Università di Monaco e Presidente dell'Ifo Institute.
(traduzione di Marzia Pecorari)
 

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