martedì 24 maggio 2011

Il Quarto potere padano commenta il Rapporto Annuale Istat: La situazione del Paese nel 2010




Rapporto annuale Istat: l'Italia è l'economia europea cresciuta meno nel decennio
di Claudio Tucci
Nel decennio 2001-2010 l'Italia è stata l'economia europea cresciuta meno, con un tasso medio annuo pari allo 0,2%, contro l'1,1% dell'Ue: lo evidenzia l'annuale rapporto Istat presentato a Montecitorio assieme al capo dello Stato, Giorgio Napolitano e al presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il ritmo di espansione della nostra economia è stato inferiore di circa la metà a quello medio europeo nel periodo 2001-2007, e il divario si è allargato nel corso della crisi e della ripresa attuale.

Nella media del 2010 l'economia italiana è cresciuta dell'1,3%, contro l'1,8% della media Ue. Nel primo trimestre del 2011, in Italia la crescita è stata dello 0,1% su base congiunturale (come già nell'ultimo del 2010) e dell'uno per cento in termini tendenziali, mentre nella media dell'Europa la crescita è stata dello 0,8% su base trimestrale (dallo 0,3 di fine 2010), e del 2,5% rispetto ai primi tre mesi del 2010.

Famiglie sempre più in bolletta
Il Belpaese quindi, secondo la fotografia scattata dall'Istat, arranca a uscire dalla crisi, con le famiglie che hanno usato i risparmi per fronteggiare le spese. L'Italia, insieme alla Germania «ha subito la maggior caduta» del Pil, che nel 2008 e 2009 é rispettivamente calato del 7% e del 6,6%, mostrando poi, al contrario di Berlino, un «recupero molto modesto: a marzo 2011, il Pil in Italia é ancora inferiore di 5,1 punti percentuali rispetto al primo trimestre 2008, mentre il recupero é stato completo in Germania e, per l'insieme dei Paesi europei, il divario da colmare é di 2,1 punti percentuali».

Tutte le debolezze della nostra economia
L'Istat segnala ancora che la debolezza dell'economia italiana nel corso del decennio ha riguardato l'intero sistema produttivo. L'impatto comparativamente maggiore della crisi è legato però soprattutto alla vistosa caduta dell'attività nel settore industriale, in ragione della specializzazione relativa nella manifattura e, in particolare, nel comparto dei beni strumentali, che caratterizzano la nostra economia. La ripresa della produzione industriale inoltre è stata solo parziale e si è affievolita dalla seconda metà del 2010.

Il lavoro resta un'emergenza
Note dolenti pure sul fronte lavoro, dove la crisi ha avuto un impatto molto pesante. Nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 532mila unità, e i più colpiti sono stati i giovani tra i 15 e i 29 anni, fascia d'età in cui si registrano 501mila occupati in meno.

Un giovane su cinque non studia e non lavora
Si conferma altissimo anche il numero di ragazzi, tra i 15 e i 29 anni, cosiddetti Neet (Not in education, employment or training), vale a dire che non studiano e non lavorano. Nel 2010 sono poco oltre 2,1 milioni, 134mila in più rispetto a un anno prima (+6,8 per cento). Si tratta del 22,1% degli under 30, percentuale in aumento rispetto al 20,5% del 2009. L'incremento riguarda soprattutto i giovani del Nord Est, gli uomini e i diplomati, ma anche gli stranieri. Infatti nel 2010 sono 310mila gli stranieri cosiddetti Neet.

Una famiglia su quattro a rischio povertà
E come incidono tutti questi dati sulla popolazione italiana? Che circa una famiglia su quattro (il 24,7% per l'esattezza) sperimenta il rischio di povertà o esclusione, un valore superiore alla media Ue (23,1 per cento). La Strategia Europa 2020 - spiega l'Istat - promuove l'inclusione sociale, puntando a far uscire almeno 20 milioni di persone dal rischio di povertà o di esclusione, una condizione che oggi in Europa interessa 114 milioni di persone (15 milioni solo in Italia, che nel Piano nazionale di riforma si pone l'obiettivo di ridurle di 2,2 milioni).

Al Sud «situazione allarmante»
Gli indicatori individuati per monitorare tale obiettivo sono tre: le persone a rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali; le persone in situazione di grave deprivazione materiale; le persone che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa.

L'Istat rileva inoltre che mentre «nella Ue le persone a rischio di povertà (dopo i trasferimenti sociali) sono il 16,3%, in Italia ammontano al 18,4 per cento». In Italia, sottolinea poi l'Istituto, «l'8,8% delle persone di età inferiore ai 60 anni (il 6,6% della popolazione totale) vive in una famiglia a intensità lavorativa molto bassa, valore prossimo alla media Ue (9 per cento)». Particolarmente allarmante la situazione del Mezzogiorno, «dove la quota delle persone che si trovano contemporaneamente nelle tre condizioni di rischio considerate dalla Strategia Europa 2020 è superiore al 2% (circa 469mila individui)».
 23 maggio 2011

Nel 2009-2010, mezzo milione di posti di lavoro in meno. L'occupazione giovanile cala 5 volte più del totale
di Claudio Tucci
La crisi ha avuto un impatto pesante sul lavoro, con oltre mezzo milione di occupati in meno, di cui più della metà nel Mezzogiorno. Secondo il rapporto annuale Istat, «in Italia l'impatto della crisi sull'occupazione è stato marcato. Nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di 532mila unità, di cui ben 280mila al Sud . La flessione riguarda anche il Nord (-1,9%, pari a -228mila unità), «mentre le regioni centrali rimangono sostanzialmente indenni dalle ricadute della crisi».

Circa i tre quarti della caduta dell'occupazione «hanno riguardato l'industria in senso stretto (-404mila), nonostante l'ampio uso della Cig (ordinaria, straordinaria, in deroga)». Al Sud «la discesa della manodopera industriale è doppia in confronto al Centro-Nord (rispettivamente 13,8% e 6,9%), contribuendo a ridurre ancora di più il tasso di industrializzazione di questa area geografica».

Occupazione giovani cala 5 volte più del totale
È proseguita nel 2010 la caduta degli occupati tra i 18 e 29 anni (-182mila unità) dopo quella particolarmente significativa del 2009 (-300 mila unità). In termini relativi, il calo dell'occupazione giovanile (-8,0 e -5,3%, rispettivamente nel 2009 e nel 2010) «é stato circa cinque volte più elevato di quello complessivo». Nel 2010, «é occupato circa un giovane ogni due nel Nord, meno di tre ogni dieci nel Mezzogiorno». Il calo dell'occupazione, osserva ancora l'Istat, «si é concentrato nell'occupazione permanente a tempo pieno (-1,7%, pari a -297mila unità), a differenza di quanto accaduto nel 2009, quando aveva interessato tutte le figure lavorative».

L'Istat rileva inoltre che nel 2010 l'occupazione é rimasta stabile per le donne ma é peggiorata la qualità del loro lavoro. È infatti scesa «l'occupazione qualificata, tecnica e operaia (-170mila unità), ed è aumentata soprattutto quella non qualificata (+108mila unità). Si tratta soprattutto di italiane impiegate nei servizi di pulizia a imprese ed enti e di collaboratrici domestiche e assistenti familiari straniere».

Donne meno pagate degli uomini
Altri fattori di peggioramento qualitativo dell'occupazione femminile sono: la crescita del part time, «quasi interamente involontaria e concentrata nei comparti di attività tradizionali (commercio, ristorazione, servizi alle famiglie e alla persona) che presentano orari di lavoro poco adatti alla conciliazione con i tempi di vita»; l'aumento delle donne sovra istruite «con un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta»; la disparità salariale di genere «che rimane notevole nel 2010. Infatti, la retribuzione netta mensile delle lavoratrici dipendenti é in media di 1.077 euro contro i 1.377 euro dei colleghi uomini, in termini relativi circa il 20% in meno».

Complessivamente, osserva l'Istat «la partecipazione delle donne al mercato del lavoro continua a essere molto più bassa in Italia rispetto al resto d'Europa».

Due milioni i giovani "scoraggiati" nella ricerca del lavoro
Da segnalare infine come siano circa 2 milioni nel 2010 gli italiani che hanno rinunciato a cercare lavoro. Di questi 1,5 milioni sono effettivamente «scoraggiati», ovvero hanno deciso di smettere di cercare un impiego perchè convinti di non poterlo trovare, mentre circa 500mila sono ancora in attesa degli esiti di passate ricerche. Gli scoraggiati sono ormai il 10% della popolazione inattiva, con una punta di poco inferiore al 16% nel Mezzogiorno. Si tratta di una percentuale ai vertici della classifica dei Paesi europei. Infatti, conclude l'Istat, «rispetto all'insieme dei Paesi dell'Unione, l'Italia registra un'incidenza più che doppia, sul totale delle non forze di lavoro (15-64 anni), degli inattivi scoraggiati». La quota italiana è più che doppia rispetto a quella della Spagna e sei volte quella della Francia.
 23 maggio 2011

Istat: la ripresa prosegue ma lenta, donne pilastro welfare informale
Mantenuto il rigore sui conti pubblici ma mercato del lavoro ancora debole: crescono "scoraggiati" e "Neet"
Roma, 23 mag (Il Velino) - La ripresa economica italiana, seppur lenta, è proseguita anche nel 2010, spinta dalla domanda estera. Il nostro paese ha mantenuto il rigore sui conti pubblici, con un indebitamento che è diminuito grazie, tra l'altro, al contenimento della spesa. Il recupero ha investito tutti i settori, a parte le costruzioni. La crisi ha però messo in evidenza i nodi di fondo del mercato del lavoro, dalle forti disparità territoriali alle difficoltà di inserimento dei giovani, dalla sua segmentazione tra italiani e stranieri all’elevato numero di persone che rinunciano alla ricerca di un’occupazione. Nel 2010 la riduzione del lavoro, a differenza degli anni precedenti, si è fatta sentire in particolar modo sull’occupazione permanente a tempo pieno. La crisi agisce poi in un contesto caratterizzato da un modello di welfare che "non appare adeguato a rispondere ai bisogni emergenti" e in cui la famiglia continua a svolgere il ruolo di principale, e in molti casi unico, ammortizzatore sociale. In questo contesto le donne rappresentano il pilastro delle reti d’aiuto informale. È quanto emerge dal Rapporto annuale 2010 sulla situazione del paese dell’Istat presentato alla Camera dei deputati dal presidente dell’istituto Enrico Giovannini alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del presidente della Camera Gianfranco Fini. La crisi economica, da un punto di vista prettamente tecnico, è finita e la ripresa sta procedendo ormai dal 2009. Le conseguenze della recessione sono però evidenti da un punto di vista sociale, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro, dove i giovani, le donne e gli stranieri risultano i più colpiti (soprattutto nel Mezzogiorno). Crescono nel 2010 gli scoraggiati e i Neet (Not in education, employment or training): per quest’ultimi – tra i 15 e 29 anni – il rischio esclusione sociale è elevato, dal momento che la metà si trova in questo stato da almeno due anni e “più si rimane fuori dal circuito formativo o lavorativo, tanto più è difficile rientrarvi”. Le famiglie continuano a essere i principali ammortizzatori sociali, “affiancandosi alla cassa integrazione che ha sostenuto una larga quota di adulti con i figli”. Sempre più importante il ruolo delle donne che continuano a essere il pilastro della rete di aiuto informale e dell’assistenza e cura, svolgendo in un anno 2,1 miliardi di ore di aiuto a componenti di altre famiglie, pari ai due terzi del totale erogato.
In una situazione di crisi economica - ribadisce l'Istat - il modello del welfare italiano “manifesta in modo sempre più evidente la sua debolezza e l'incapacità di fornire risposte adeguate ai bisogni emergenti”. La catena di solidarietà femminile rischia però di spezzarsi. Le donne occupate con figli sono infatti sovraccariche per il lavoro di cura delle famiglie e le nonne sono sempre più schiacciate tra cura dei nipoti, dei genitori anziani non autosufficienti e dei figli adulti. Se da un lato le donne sono un punto fermo del welfare italiano, dall’altro la loro partecipazione al mercato del lavoro continua a essere molto più bassa in Italia rispetto al resto d’Europa. Nel 2009 più di un quinto delle donne con meno di 65 anni che lavorano o hanno lavorato, ha interrotto l’attività lavorativa per il matrimonio, una gravidanza o altri motivi familiari. La quota sale al 30 per cento tra le madri e nella metà dei casi l’interruzione è dovuta alla nascita di un figlio.

 Dal punto di vista macroeconomico, l’Istat segnala come la ripresa economica, iniziata nel 2009, sia proseguita nel 2010, con l’Europa che viaggia a due velocità: vola la Germania, restano indietro Spagna, Grecia e Portogallo, si posizionano nel mezzo Italia e Francia. Il nostro paese, in particolare, “ha colto la ripresa” anche se “lenta”, dopo un decennio di bassa crescita. Bene l’export ma crescono ancora troppo le importazioni. I consumi privati hanno fornito un contributo alla crescita del Pil, mentre è emerso un primo recupero degli investimenti. Sul’inflazione, rileva l’Istat, non hanno ancora pesato gli shock esogeni, come i disordini in Nord Africa. I conti pubblici hanno tenuto, con un debito cresciuto meno di altri e un deficit che, seppur ancora alto, è diminuito. Dal punto di vista delle imprese, le pmi hanno reagito meglio alla recessione economica, riposizionandosi rapidamente sul mercato. A soffrire di più sono state le grandi imprese, soprattutto in un contesto europeo. Nel complesso, il saldo tra natalità e mortalità delle imprese è negativo per 43 mila unità, mentre i posti di lavoro in meno rispetto a dodici mesi prima sono stati 364 mila. Insomma, rileva l’istituto di statistica, il sistema imprenditoriale italiano non è stato investito allo stesso modo dalla crisi.

 Alla crescita “modesta” dell’ultimo decennio è corrisposta una forte capacità dell’economia italiana di generare occupazione, per l’effetto congiunto delle riforme del mercato del lavoro e dello sviluppo di attività a maggiore intensità di manodopera. Di riflesso, la produttività del lavoro ha registrato un recupero del 2,2 per cento nel 2010, collocandosi però sotto il livello del 2000. L’evoluzione delle retribuzioni si è mantenuta “molto moderata”: nel 2010 sia le retribuzioni contrattuali, sia quelle lorde di fatto per Ula nel totale dell’economia, sono cresciute del 2,1 per cento. Soffre ancora i settore delle costruzioni: l’attività è rimasta su livelli complessivamente inferiori a quelli dell’anno precedente e i segnali “appaiono ancora negativi”. Guardando al mercato del lavoro, l’Istat segnala come nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di 532 mila unità, di cui più della metà nel Mezzogiorno. Il tasso di occupazione degli stranieri è sceso dal 64,5 per cento del 2009 al 63,1 per cento del 2010, un calo più che doppio in confronto a quello degli italiani. Allo stesso tempo il tasso di disoccupazione è passato dall’11,2 all’11,6 per cento. Inoltre i lavorati stranieri guadagnano meno degli italiani. Cresce il numero degli “scoraggiati”, ossia quanti non hanno cercato lavoro poiché ritenevano di non riuscire a trovarlo. Rispetto all’insieme dei paesi dell’Unione europea, l’Italia ha registrato un’incidenza più che doppia degli inattivi scoraggiati: 9,3 per cento (dato riferito al 2009) rispetto al 4,2 per cento dei Ventisette.
(cos) 23 mag 2011 09:59

Istat, Italia fanalino di coda della Ue
Cade il Pil, più giovani senza lavoro
Il rapporto presentato oggi rivela una crisi preoccupante
Per affrontare le spese le famiglie intaccano i risparmi
ROMA - L'Italia è tra le cenerentole d'Europa: arranca, stenta a uscire dalla crisi e le famiglie, segnala l'Istat nel Rapporto 2010 presentato oggi, hanno usato i risparmi per fronteggiare le spese. L'Italia, insieme alla Germania «ha subito la maggior caduta» del Pil, che nel 2008 e 2009 è rispettivamente calato del 7% e del 6,6%, mostrando poi, al contrario di Berlino, un «recupero molto modesto: a marzo 2011, il Pil in Italia è ancora inferiore di 5,1 punti percentuali rispetto al primo trimestre 2008, mentre il recupero è stato completo in Germania e, per l'insieme dell'Uem, il divario da colmare è di 2,1 punti percentuali». La produzione industriale, sino all'inizio del 2011, ha recuperato «circa l'11% rispetto al minimo toccato nel marzo 2009» collocandosi «ancora su livelli inferiori di oltre il 19% rispetto ai massimi dell'estate 2007», ossia «il punto di svolta negativo del ciclo». E poi si è ridotta la capacità di esportare «specie nei settori di punta della nostra specializzazione produttiva. Le famiglie, il cui potere di acquisto è sceso del 3,1% nel 2009 e dello 0,6% nel 2010, per salvaguardare il livello dei consumi hanno avviato una progressiva erosione del tasso di risparmio, sceso per la prima volta al di sotto di quello delle altre grandi economie dell'Uem.

È proseguita nel 2010 la caduta degli occupati tra i 18 e 29 anni (-182mila unità) dopo quella particolarmente significativa del 2009 (-300 mila unità). In termini relativi, il calo dell'occupazione giovanile (-8,0 e -5,3%, rispettivamente nel 2009 e nel 2010) «è stato circa cinque volte più elevato di quello complessivo». Lo segnala l'Istat aggiungendo che «nel 2010, è occupato circa un giovane ogni due nel Nord, meno di tre ogni dieci nel Mezzogiorno». Il calo dell'occupazione, osserva ancora l'Istituto, «si è concentrato nell'occupazione permanente a tempo pieno (-1,7%, pari a -297mila unità), a differenza di quanto accaduto nel 2009, quando aveva interessato tutte le figure lavorative». L'Istituto ricorda che «nel biennio 2009-2010 l'impatto della crisi sull'occupazione è stato marcato», con gli occupati che «sono scesi di 532 mila unità, di cui più della metà nel Mezzogiorno. La riduzione riguarda anche il Nord (-1,9%, pari a -228mila unità) mentre le regioni centrali rimangono sostanzialmente indenni dalle ricadute della crisi».

Circa i tre quarti della caduta occupazionale, emerge nel rapporto, «hanno riguardato l'industria in senso stretto (-404mila unità nel 2009-2010), nonostante l'ampio utilizzo della Cig (ordinaria, straordinaria, in deroga). Nel Mezzogiorno la discesa della manodopera industriale è doppia in confronto al Centro-Nord (rispettivamente, 13,8 e 6,9%), contribuendo a ridurre ancora di più il tasso di industrializzazione di questa area geografica». L'Istat rileva,inoltre, che nel 2010 l'occupazione è rimasta stabile per le donne ma è peggiorata la qualità del loro lavoro. È infatti scesa «l'occupazione qualificata, tecnica e operaia (-170mila unità), ed è aumentata soprattutto quella non qualificata (+108mila unità). Si tratta soprattutto di italiane impiegate nei servizi di pulizia a imprese ed enti e di collaboratrici domestiche e assistenti familiari straniere». Altri fattori di peggioramento qualitativo dell'occupazione femminile sono: la crescita del part time, «quasi interamente involontaria e concentrata nei comparti di attività tradizionali (commercio, ristorazione, servizi alle famiglie e alla persona) che presentano orari di lavoro poco adatti alla conciliazione con i tempi di vita»; l'aumento delle donne sovra istruite «con un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta»; la disparità salariale di genere «che rimane notevole nel 2010. Infatti, la retribuzione netta mensile delle lavoratrici dipendenti è in media di 1.077 euro contro i 1.377 euro dei colleghi uomini, in termini relativi circa il 20% in meno». Complessivamente, osserva l'Istat «la partecipazione delle donne al mercato del lavoro continua a essere molto più bassa in Italia rispetto al resto d'Europa».
Lunedì 23 Maggio 2011 - 10:12

La "fotografia" dell'Istat, ripresa lenta e disoccupati in aumento
23 maggio 2011
ROMA (ITALPRESS) – Nella media del 2010 l’economia italiana e’ cresciuta dell’1,3% contro l’1,8% dell’Unione Economica Monetaria. Nel primo trimestre del 2011 in Italia la crescita e’ stata dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e dell’1% su base annua. Sono alcuni dati del rapporto annuale Istat che fotografa la condizione economico-sociale dell’Italia nel 2010. Secondo l’Istat il Paese “e’ uscito dalla recessione economica” e il confronto con le fasi cicliche precedenti ribadisce che “l’episodio recessivo conclusosi nel 2009 e’ di gran lunga il piu’ grave del secondo dopoguerra”. L’Italia quindi, sempre leggendo i dati dell’Istituto di Statistica, si sta riprendendo ma “la fase di espansione risulta d’intensita’ minore rispetto a quelle osservate nel passato. Rispetto alla media europea l’Italia e’ l’economia che e’ cresciuta meno nell’arco del decennio 2001-2010 con un tasso medio annuo pari allo 0,2% contro l’1,1% dell’Uem”.
 Secondo il rapporto la produzione del settore industriale in Italia è cresciuta nel 2010 del 6,4% e l’attività produttiva ha recuperato circa l’11% rispetto al minimo toccato nel 2009, ma si colloca ancora su livelli inferiori di oltre il 19% rispetto ai massimi del 2007.
 L’area della disoccupazione, nel 2010, ha continuato ad estendersi e il numero dei disoccupati è aumentato dell’8,1%, più 158 mila unità, raggiungendo i 2,1 milioni, il
 livello più elevato dal 2002. Nel 2010 è occupato circa un giovane ogni due del nord, meno di tre ogni dieci del sud. Il tasso di occupazione degli stranieri è sceso dal 64,5% del 2009 al 63,1% del 2010, con un aumento del tasso di disoccupazione dall’11,2% all’11,6%. Aumentano i giovani tra i 15 e i 29 anni, più 134 mila nel 2010, che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o
 formazione. L’incremento dei Neet (not in education, employment or training) ha riguardato soprattutto i giovani del nord-est, gli uomini e i diplomati. Tra i Neet vive con almeno un genitore l’87,5% degli uomini e il 55,9% delle donne.
 (ITALPRESS).

Istat: 1 italiano su 4 a rischio povertà
In Italia un quarto della popolazione e' a rischio di poverta' o di esclusione (24,7%), un valore piu' elevato della media europea (23,1%). Lo sottolinea il ''Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010'' diffuso oggi dall'Istat. La Strategia Europa 2020 promuove l'inclusione sociale, puntando a far uscire almeno 20 milioni di persone dal rischio di poverta' o di esclusione, una condizione che oggi in Europa interessa 114 milioni di persone (15 milioni solo in Italia, che nel Pnr si pone l'obiettivo di ridurle di 2,2 milioni). Gli indicatori individuati per monitorare tale obiettivo sono tre: le persone a rischio di poverta' dopo i trasferimenti sociali; le persone in situazione di grave deprivazione materiale; le persone che vivono in famiglie a intensita' lavorativa molto bassa. Dalla loro sintesi deriva un indicatore complessivo che misura la quota di persone che sperimentano almeno una delle condizioni descritte. In particolare, nell'Unione europea le persone a rischio di poverta' (dopo i trasferimenti sociali) sono il 16,3 per cento, in Italia il 18,4. Le posizioni di maggior svantaggio sono quelle di Lituania, Bulgaria e Romania (piu' di una persona su cinque) e Lettonia (25,7 per cento). In Italia l'8,8 per cento delle persone di eta' inferiore ai 60 anni (il 6,6 per cento della popolazione totale) vive in una famiglia a intensita' lavorativa molto bassa, valore prossimo alla media Ue (9,0 per cento). I livelli piu' elevati si registrano in Irlanda (circa un quinto della popolazione di riferimento), Regno Unito (12,6 per cento) e Belgio (12,3 per cento). Pur considerando le situazioni critiche sopra descritte, sono 13 i paesi dell'Unione dove l'incidenza dell'indicatore e' contenuta (inferiore al 7 per cento), con Cipro e Repubblica Ceca nelle posizioni meno svantaggiate. A livello territoriale i differenziali appaiono consistenti fortemente a sfavore del Mezzogiorno, dove la quota delle persone che si trovano contemporaneamente nelle tre condizioni di rischio considerate dalla Strategia Europa 2020 e' superiore al 2 per cento (circa 469 mila individui). Nelle regioni meridionali, dove risiede circa un terzo della popolazione nazionale, vive il 57 per cento delle persone a rischio di poverta' o esclusione (in almeno una condizione di disagio) e il 77 per cento di quelle con tutti e tre i sintomi (rispettivamente 8,5 milioni e 469 mila individui). Le situazioni piu' gravi si riscontrano in Sicilia, dove i tre indicatori assumono i valori massimi: il 39,9 per cento dei residenti e' a rischio di poverta', il 18,8 per cento e' in grave deprivazione e il 15,7 per cento vive in famiglie a bassa intensita' lavorativa. I valori sono elevati anche in Calabria e Campania. Da segnalare la Puglia, per il dato riferito alla grave deprivazione (10,7 per cento) e la Basilicata per quello relativo alla bassa intensita' lavorativa (14,0 per cento). Le persone anziane sole, quelle che vivono in famiglie con tre o piu' figli, in quelle con membri aggregati o dove e' presente un solo genitore presentano i livelli piu' elevati di rischio di poverta' ed esclusione: oltre un terzo degli appartenenti a questi gruppi si trova almeno in una delle condizioni di rischio considerate dalla Strategia.
 Notizia del 23/05/2011

Un italiano su 4 sperimenta la povertà
«Giovani e donne pagano la crisi»
 Allarme per la condizione femminile:«insostenibile» il carico di cura. Mezzo milione disoccupati in più under 30
MILANO - Circa un quarto degli italiani (il 24,7% della popolazione, più o meno 15 milioni) «sperimenta il rischio di povertà o di esclusione sociale». Si tratta di un valore del 23,1% superiore alla media Ue. Lo rileva l'Istat nel rapporto annuale presentato Montecitorio dal presidente dell'Istituto di statistica, Enrico Giovannini , dal quale emerge un Paese in grande affanno. La crisi colpisce con durezza i giovani e le donne, ha detto Giannini in Parlamento. I primi hanno perso mezzo milione di posti di lavoro in due anni. Sulle donne viene scaricato il welfare in dosi massicce, un carico «sempre più insostenibile» scrive l'Istat. Mentre sempre di più il loro lavoro fuori casa è dequalificato e sottopagato.

PIL, ITALIA FANALINO CODA - «Nel decennio 2001-2010 l'Italia ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i paesi dell'Unione europea». Il paese è «fanalino di coda nell'Ue per la crescita»: è questa la fotografia della situazione economica del paese contenuta nel rapporto annuale Istat. Quella italiana «è l'economia europea cresciuta di meno nell'intero decennio», con un tasso medio annuo pari allo 0,2%, contro l'1,1% dell'Ue. «Il ritmo di espansione della nostra economia - si legge - è stato inferiore di circa la metà a quello medio europeo nel periodo 2001-2007». L'Italia, insomma, ha avuto una «crescita dimezzata» e il divario «si è allargato nel corso della crisi e della ripresa attuale». Nella media dello scorso anno l'economia italiana, ricorda l'Istat, è cresciuta dell'1,3 per cento, contro l'1,8 per cento dell'Ue. Nel primo trimestre del 2011, in Italia la crescita è stata dello 0,1 per cento su base congiunturale (come giá nell'ultimo trimestre del 2010) e dell'uno per cento in termini tendenziali, mentre nell'Uem la crescita è stata dello 0,8 per cento su base trimestrale (dallo 0,3 di fine 2010), e del 2,5 per cento rispetto ai primi tre mesi del 2010.

DISOCCUPAZIONE GIOVANILE: MEZZO MILIONE IN PIU' - «In Italia l'impatto della crisi sull'occupazione è stato pesante. Nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila unità». I più colpiti sono stati i giovani tra i 15 e i 29 anni, fascia d'età in cui si registrano 501 mila occupati in meno. L'oltre mezzo milioni di occupati in meno (-2,3%) in due anni è quindi il risultato di una perdita di 501 mila posti tra gli under 30 (-13,2%), di un calo dei 322 mila unità nella fascia d'età compresa tra i 30 e i 49 anni (-2,3%) e di un aumento di 291 mila occupati tra gli over-50 (+5,2%).

SCUOLA, 18,8% DI ABBANDONI  - L'economia che arranca incide profondamente sui i fenomeni sociali: nel 2010, gli abbandoni scolastici prematuri rimangono consistenti, al 18,8 per cento. Il dato è più alto tra i ragazzi, 22,0 per cento contro il 15,4 delle ragazze. L'obiettivo fissato dal Pnr (15-16 per cento) non appare particolarmente ambizioso e non consente un avvicinamento deciso rispetto agli obiettivi comunitari. Nella «Strategia Europa 2020», il piano che delinea le grandi direttrici politiche per stimolare lo sviluppo e l'occupazione nell'Ue gli abbandoni scolastici prematuri devono essere contenuti al di sotto della soglia del 10 per cento. I giovani (20-24 anni) che hanno abbandonato gli studi senza conseguire un diploma di scuola media superiore interessa tutti i paesi dell'Unione (media 14,4 per cento). Sono forti le disparità tra gli Stati che già hanno raggiunto o sono prossimi all'obiettivo (paesi del Nord Europa e molti tra quelli di più recente accesso) e alcuni paesi del Mediterraneo (Spagna, Portogallo e Malta), dove le quote di abbandono superano il 30 per cento. Quasi ovunque l'incidenza è superiore tra i ragazzi rispetto alle ragazze.

DONNE -Sconfortante anche il quadro sulla condizione femminile. Peggiora la qualità del lavoro e la disparità salariale rispetto ai colleghi uomini è del 20%. Ben 800.000 donne, con l'arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perchè licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere. L'occupazione qualificata, tecnica e operaia, è scesa di 170 mila unitá, mentre è aumentata soprattutto quella non qualificata (+108 mila unitá). Si tratta soprattutto di «italiane impiegate nei servizi di pulizia a imprese ed enti e di collaboratrici domestiche e assistenti familiari straniere». Ma ciò che su tutto emerge è il ruolo di «ammortizzatore sociale» svolto dalle donne, un carico di cura e assistenza degli altri che si è fatto «insostenibile»

FAMIGLIE, RISPARMIO AI MINIMI DEGLI ULTIMI VENT'ANNI - Le famiglie italiane, per salvaguardare il livello dei consumi, hanno progressivamente eroso il loro tasso di risparmio, «sceso per la prima volta al di sotto di quello delle altre grandi economie dell'eurozona». Lo scorso anno la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata aL 9,1%, «il valore più basso dal 1990».
Paola Pica

La Crisi affonda i giovani: 2,1 mln non lavorano nè studiano
Neet sono più che in UE. Il fenomeno preoccupa: Metà ci resta a lungo
ROMA - La crisi economica ha colpito duramente i giovani, non solo con un aumento dei disoccupati ma anche con la diffusione del fenomeno dei Neet, quelli che non lavorano nè studiano. In base al rapporto annuale Istat sul 2010, l'anno scorso «sono poco oltre 2,1 milioni (+134mila) i giovani fra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione». Una condizione preoccupante perchè «permane nel tempo: oltre la metà dei Neet resta tale per almeno due anni», e «più si rimane fuori dal circuito formativo o lavorativo tanto più è difficile rientrarvi».
L'incidenza del fenomeno Neet (giovani not in education, employment or training) continua a essere più diffusa tra le donne (il 24,9%), tra i residenti nel Mezzogiorno (30,9%) e tra i giovani con al più la licenza media (23,4%). Tuttavia l'aumento nel 2010 ha riguardato soprattutto i giovani del Nord-est, gli uomini e i diplomati, ma anche gli stranieri.
Il confronto europeo, aggiunge l'istituto di statistica, «mostra come nel 2009 la quota dei Neet in Italia (20,5%) sia significativamente superiore alla media europea (14,7%), e prossima solamente a quella spagnola (20,4%)». Il 65,5% dei Neet è inattivo, anche se solo la metà non cerca un impiego e non è disponibile a lavorare. I disoccupati rappresentano il 34,5% dei Neet, mentre nel Mezzogiorno circa il 30% è disoccupato e il 45% è comunque interessato a lavorare.
TM News
Lunedì 23 maggio 2011

Allarme donne, pilastro del welfare ma non ce la fanno più
Cruciali per la rete d'aiuto familiare, ma sono sovraccariche
ROMA - Le donne sono il pilastro del welfare, reggendo il carico maggiore nella rete d'aiuto familiare fondamentale per l'economia e la società. Ma sono sempre più sovraccariche di impegni e questo sistema è ormai in crisi strutturale, con il rischio di sgretolarsi. È l'allarme lanciato dall'Istat nel rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010, secondo cui «la situazione delle donne, che stanno reggendo l'assistenza del paese, è gravissima. Questo sistema è in crisi strutturale: le donne non reggono più e non può essere più questo il modello che sostiene il welfare italiano».

Le donne, spiega l'istituto di statistica, «continuano a essere il pilastro della rete d'aiuto informale e dell'assistenza e cura, svolgendo in un anno 2,1 miliardi di ore d'aiuto a componenti di altre famiglie, pari ai due terzi del totale erogato». Tuttavia, «le tendenze demografiche e i cambiamenti nel rapporto delle donne con il mercato del lavoro sono state alla base di difficoltà crescenti della rete informale di aiuti. La rete di parentela è sempre più stretta e lunga. Ogni potenziale 'care giver' (persona di oltre 14 anni che dà aiuto gratuito a persone non coabitanti) - sottolinea il rapporto - ha meno persone con cui condividere l'aiuto nella rete di parentela, meno tempo da dedicare agli aiuti e un maggior numero di individui bisognosi di aiuti per un periodo di tempo più lungo».
«La catena di solidarietà femminile tra madri e figlie - conclude l'Istat - su cui si è fondata la rete d'aiuto informale rischia di spezzarsi. Le donne occupate con figli sono sovraccariche per il lavoro di cura all'interno della famiglia e le nonne sono sempre più schiacciate tra cura dei nipoti, dei genitori anziani non autosufficienti e dei figli adulti».
TM News
Lunedì 23 maggio 2011

Recessione finita da 1 anno, Italia non sta meglio degli altri
«Pil ancora indietro rispetto a Germania, Francia, Spagna e Gb»
ROMA - La recessione è finita da un anno, ma la ripresa stenta ancora e l'Italia non sta uscendo dalla crisi meglio delle altre maggiori economie europee. Secondo il rapporto annuale Istat sulla situazione del Paese nel 2010, «l'episodio recessivo conclusosi nell'aprile del 2009 è di gran lunga il più grave del secondo dopoguerra. La successiva fase di espansione risulta però di intensità minore rispetto a quelle osservate nel passato, simile solo a quello della 'piccola crisi' del 2003, che era stata il punto di minimo di una fase prolungata di stagnazione».
«Per la sua vocazione produttiva - sottolinea l'istituto di statistica - e gli scarsi margini di manovra della finanza pubblica, il nostro Paese ha subito la crisi in misura comparativamente forte e ha stentato nella successiva ripresa: nel 2010 il livello del Pil è risultato ancora inferiore di 5,3 punti percentuali rispetto a quello raggiunto nel 2007, mentre il divario dal colmare è del 3,7% nel Regno Unito, del 3% in Spagna e di appena 0,8% e 0,3% in Francia e Germania».
TM News
Lunedì 23 maggio 2011

Italia indietro rispetto a UE, cresce il popolo degli sfiduciati
 (Teleborsa) - Roma, 23 mag - L'Italia arranca nel panorama economico europeo, con una ripresa giudicata ancora molto stentata nella fase di uscita dalla crisi. E' quanto emerge dal Rapporto annuale dell'ISTAT sulla situazione del Paese, presentata oggi dal Presidente Enrico Giovannini a Montecitorio presso la Sala della Lupa.
 La crescita modesta del Bel Paese, un mercato del lavoro in panne ed una bassa produttività sono gli elementi che contraddistinguono l'economia nazionale, così come la stagnazione dei salari, la perdita del potere d'acquisto delle famiglie ed una propensione al risparmio sui minimi dagli anni '90. La produzione registra una contrazione del 19% rispetto ai picchi del 2007. Resta in fermento solo l'export, che viene però compensato da una crescita delle importazioni.
 La crisi ha fatto fare all'Italia un salto indietro di almeno dieci anni, con una crescita media del PIL che si attesta allo 0,2% nell'ultimo decennio, al di sotto della media europea che vanta un 1,3% per la Zona Euro ed un 1,1% per la UE allargata. Rispetto a quanto perduto durante la crisi, l'Italia deve colmare ancora un divario del 5,1% del PIL, mentre la ripresa più robusta della Germania ha consentito a questo Paese di recuperare quanto perso in recessione.
 L'Italia non tiene il passo neanche con la Strategia Europa 2020, che ha fissato determinati obiettivi per lo sviluppo e l'occupazione, mediante lo stimolo di programmi di ricerca, di recupero della competitività e di aumento della produttività. Mancano infatti adeguati Piani per la ricerca e la scuola.
 Il quadro peggiora se si scende nel particolare e si guardano le condizioni dell'italiano medio. Circa 1 persona su 4 sperimenta il rischio povertà ed esclusione sociale. Sono 7,5 milioni gli individui in condizioni di povertà.
 La situazione occupazionale è ancora drammatica, dato che nell'ultimo biennio sono stati persi 532 mila posti di lavoro, perlopiù nella classa dei giovani under '30, che vede scendere l'occupazione di 501 mila posti. Prevalgono gli scoraggiati, ovvero i giovani che non studiano né lavorano. Sono poco più di 2,1 milioni i giovani "a spasso". La più grossa perdita di lavoro si è registrata nel Meszzogiorno, ma non mancano le difficoltà neanche a Nord. Tiene meglio il Centro.

 La maternità è ancora un elemento fortemente penalizzante nel Bel Paese, dato che si contano in 800 mila le donne licenziate o messe in condizione di dimettersi dal proprio incarico lavorativo a causa della gravidanza. Il 15% delle donne lascia a causa della nascita di un figlio.

 Ed il wellfare? Praticamente inesistente per quasi due milioni di italiani, che soffrono limitazioni della salute e non hanno trovato alcun tipo di sostegno. Perlopiù, la massa si concentra nel Mezzogiorno. Cresce invece la rete di aiuto e cura informale, capitanata dalle donne che coprono circa i due terzi del totale.

Istat, cresce il rischio povertà in Italia
 23 maggio 2011   | E.Cap.
Roma - Circa un quarto degli italiani (precisamente il 24,7% della popolazione, pari più o meno a 15 milioni di persone) «sperimenta il rischio di povertà o di esclusione sociale»: si tratta di un valore, ha fatto notare l’Istat nel suo Rapporto Annuale, presentato oggi, superiore alla media dell’Unione europea, che è del 23,1%.

Nel dettaglio, il rischio povertà riguarda circa 7,5 milioni di individui (il 12,5% della popolazione), mentre altri 1,7 milioni di persone (il 2,9%) sono in condizioni di «grave deprivazione» e 1,8 milioni (il 3%) in un’intensità lavorativa «molto bassa». Si trovano in quest’ultima condizione l’8,8% delle persone con meno di 60 anni (il 6,6%, contro un valore medio del 9%). Solo l’1% della popolazione (circa 611mila individui) vive in una famiglia contemporaneamente a rischio di povertà, deprivata e a intensità di lavoro molto bassa.
Nelle regioni meridionali, dove risiede circa un terzo degli italiani, vive il 57% delle persone a rischio povertà (8,5 milioni) e il 77% di quelle che convivono sia col rischio sia con la deprivazione, sia con un’intensità di lavoro molto bassa (469mila).

Peggio della media europea
Secondo l’Istat, le famiglie italiane, per salvaguardare il livello dei consumi, hanno progressivamente eroso il loro tasso di risparmio, «sceso per la prima volta al di sotto di quello delle altre grandi economie dell’Ue»: nel 2010, la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata al 9,1%, «il valore più basso dal 1990».

In Italia, inoltre, «la crisi ha portato indietro le lancette della crescita di ben 35 trimestri, quasi dieci anni» e l’attuale, «moderata ripresa» ne ha fatti recuperare 13: l’Italia, insomma, «ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i paesi dell’Unione europea, con un tasso medio annuo di appena lo 0,2%, contro l’1,3% registrato dall’Ue e l’1,1% della zona euro».

In particolare, l’Istat ha notato negli anni «un graduale scollamento della performance italiana rispetto alle altre maggiori economie dell’Unione, che è divenuto più evidente nella fase di ripresa 2006-2007 e si è aggravato con la crisi». Inoltre, si legge ancora nel Rapporto 2010, «per la sua vocazione produttiva e gli scarsi margini di manovra della finanza pubblica, il nostro paese ha subito la crisi in maniera comparativamente forte e stentato nella successiva ripresa: nel 2010 il livello del Pil è risultato ancora inferiore di 5,3 punti percentuali rispetto a quello raggiunto nel 2007, mentre il divario da colmare è del 3,7% nel Regno Unito, del 3% in Spagna e di appena lo 0,8% e lo 0,3% in Francia e in Germania».
Tracciando il bilancio della crisi, i tecnici dell’Istat hanno spiegato che «lo stock delle imprese si è ridotto di 43mila unità, per 363mila addetti». Tornando a oggi, hanno aggiunto, con riferimento agli ultimi dati sul Pil, che «la crescita nel primo trimestre è ancora molto lenta» e che, «in generale si riapre il divario con l’Europa». Anche per quanto riguarda la produttività del lavoro, il recupero non basta a riconquistare il terreno perso: «Siamo ai livelli del 2000», è l’avvertimento dei tecnici dell’istituto di Statistica.

Inoltre, il rapporto fa notare che «il principale fattore trainante per la ripresa è stata la domanda estera, che comunque era anche stata la componente che aveva guidato la caduta nel corso della recessione». Tuttavia, si legge nel volume, «dopo aver agito da traino nella fase di recupero dell’attività industriale, la componete estera della domanda ha però assunto nel periodo più recente un ruolo frenante: il fatturato realizzato sui mercato esteri, che era in fortissima crescita sino al terzo trimestre, ha registrato nel quarto trimestre del 2010 e ancora all’inizio del 2011 un’evoluzione assai modesta, mentre quello relativo alla componente nazionale ha mantenuto una dinamica più moderata, ma persistentemente positiva». Guardando sempre all’estero, i tecnici dell’Istat hanno evidenziato che «le piccole e medie imprese hanno reagito meglio sia nella fase recessiva sia, soprattutto, in quella espansiva, mostrando la capacità di riposizionarsi sui mercati internazionali. Mentre le grandi imprese rappresentano il segmento più in difficoltà specialmente nei mercati europei».

La crisi colpisce di più i più giovani
Riguardo al lavoro, nel Rapporto 2010 si legge che «in Italia l’impatto della crisi sull’occupazione è stato pesante. Nel biennio 2009-2010, il numero di occupati è diminuito di 532mila unità»: i più colpiti sono stati i giovani tra i 15 e i 29 anni, fascia d’età in cui si registrano 501mila occupati in meno.
L’oltre mezzo milione di occupati in meno (-2,3%) in due anni è il risultato di una perdita di 501mila posti tra gli under 30 (-13,2%), di un calo dei 322mila unità nella fascia d’età compresa tra i 30 e i 49 anni (-2,3%) e di un aumento di 291mila occupati tra gli over 50 (+5,2%).

Analizzando meglio i dati, l’Istat ha fatto notare che «nel biennio, la discesa della domanda di lavoro maschile (-3,1%, pari a -430mila unità) ha pressoché dimezzato la crescita intervenuta tra il 2000 e il 2008» e che «la flessione dell’occupazione femminile (-1,1%, pari a -103mila unità) ha interrotto il precedente incremento della partecipazione al mercato del lavoro»; più in particolare, nella media del 2010, «la contrazione occupazionale si è concentrata nella componente maschile, il cui livello è di poco superiore a quello toccato nel 2005».
Guardando ai diversi settori, «la perdita di manodopera industriale (-404mila unità nel 2009-2010) ha contribuito per i tre quarti alla caduta di domanda totale nel biennio».

In generale, nel mondo del lavoro, a causa della crisi, si è diffusa «la condizione di precarietà»: la quota di lavoratori con contratti a tempo determinato o collaborazioni ha raggiunto «il 30,8% del totale dei giovani occupati, mantenendosi oltre il milione di unità».

Ripresa lenta per le imprese, ma l'accesso al credito resta difficile
di Claudio Tucci
Le imprese italiane sono in recupero, ma hanno ancora problemi di accesso al credito. In difficoltà poi il settore delle costruzioni: l'indice di produzione, che era sceso dell'11,6% nel 2009, è diminuito ancora del 3,5% nella media 2010. Lo rileva l'Istat, nel rapporto annuale, presentato alla Camera, che sottolinea come «lo scorso anno si sia registrata - nella media - una crescita generalizzata tra i settori di attività economica, con la sola rilevante eccezione del comparto delle costruzioni, dove permane una tendenza negativa».

Bene la domanda estera
Nell'industria la ripresa è stata trainata soprattutto dalla domanda estera e presenta differenze notevoli tra settori. I livelli produttivi industriali restano, in genere, notevolmente inferiori rispetto a quelli precedenti la crisi. Nei servizi, «il recupero si concentra soprattutto nel commercio all'ingrosso, nel trasporto aereo e, parzialmente, nel turismo». L'Istat osserva inoltre che «considerando l'intero periodo di espansione ciclica, che va dal livello minimo del marzo 2009 sino a febbraio 2011 (dato più recente), il recupero maggiore tra i raggruppamenti principali di industrie si è registrato nei prodotti intermedi e nei beni strumentali, cresciuti rispettivamente del 17,6 e 13,7 per cento. Meno marcata è risultata la risalita dei beni di consumo (+6,7%: +4,8 i durevoli e +7% i non durevoli) e di quelli energetici (+2,4 per cento)».

Cala l'occupazione nelle imprese
Dal punto di vista settoriale, si conferma poi quanto la crisi abbia investito l'economia reale soprattutto nei comparti "tradizionali" e in quelli di scala: l'industria manifatturiero-estrattiva e le costruzioni si segnalano per le percentuali più elevate di imprese che vedono diminuire l'occupazione in entrambi i periodi. Del resto sono significativamente più elevati anche i casi di iniziali espansioni seguite da contrazioni occupazionali.

Accesso al credito più difficile
Crescono pure le difficoltà di accesso al credito per le imprese: fra le imprese con almeno dieci addetti, circa una su due ha cercato finanziamenti sui mercati creditizi (52% delle imprese intervistate contro il 36,5% nel 2007) con un «deciso incremento dei casi di insuccesso o successo parziale» arrivati al 35,6% contro il 16,1% del 2007.

Le imprese che hanno cercato finanziamenti sono attive soprattutto nei settori industria, costruzioni, servizi di informazione e comunicazione, attività professionali, scientifiche e tecniche, altri servizi. Oltre il 40% delle imprese che ha cercato finanziamenti giudica la propria situazione finanziaria e il rapporto debito/fatturato in peggioramento rispetto al 2007 mentre il 22% percepisce un miglioramento degli assetti finanziari «e le rimanenti indicano una situazione finanziaria stabile».

In merito al mercato finanziario, «i peggioramenti più frequenti percepiti da oltre il 40% delle imprese si osservano con riferimento alla disponibilità delle banche a erogare finanziamenti alle condizioni di costo. Invece, l'onere e lo sforzo - conclude Istat - per reperire finanziamenti e altri aspetti dei mercati vengono ritenuti invariati dalla metà circa delle imprese».
 23 maggio 2011

Nel 2010, abbandoni scolastici a quota 19%. Sempre meno le iscrizioni all'università
di Claudio Tucci
Gli abbandoni scolastici prematuri continuano a essere una spina nel fianco del sistema scolastico italiano. Nel 2010 la percentuale dei ragazzi, tra i 20 e i 24 anni, che ha lasciato gli studi senza conseguire un diploma di scuola media superiore si è attestata al 18,8%, ben lontano dalla soglia del 10% indicata nella Strategia Europa 2020, e a fronte di una media europea del 14,4 per cento. Lo evidenzia l'Istat, nel suo rapporto annuale sull'Italia, presentato alla Camera, che sottolinea come gli abbandoni precoci riguardino soprattutto i ragazzi (22%) contro il 15,4% delle ragazze.

«L'obiettivo fissato dal piano nazionale delle riforme, 15%-16%, non appare particolarmente ambizioso e non consente un avvicinamento deciso rispetto agli obiettivi comunitari», scrive l'Istat. Inoltre, la spesa dell'Italia in ricerca e sviluppo «è al di sotto dei target europei» nell'ambito del piano Europa 2020. «Per la spesa in ricerca e sviluppo - evidenzia il rapporto - l'Ue fissa l'obiettivo al 3% del Pil, l'Italia a poco più della metà, 1,53 per cento».

Al Sud, abbandoni scolastici al top
Tornando invece agli abbandoni prematuri, spicca come le differenze territoriali siano piuttosto marcate: particolarmente grave la situazione della Sicilia, dove più di un quarto dei giovani lascia la scuola con al più la licenza media. Percentuali superiori al 23% si registrano anche in Sardegna, Puglia e Campania. Più in linea con il traguardo europeo del 2020 appare il Nord-est, con un tasso di abbandono scolastico intorno al 12% nella provincia autonoma di Trento e in Friuli-Venezia Giulia.

La tendenza alla riduzione degli abbandoni, più incisiva fino al 2007, mostra negli anni recenti un andamento stagnante. Le regioni del Mezzogiorno, pur partendo dai livelli più elevati, sono quelle che mostrano la maggiore contrazione del fenomeno. «Il sistema tuttavia - si fa notare nel rapporto - offre ampie opportunità legate alla prosecuzione degli studi: dai dati dell'indagine Excelsior nel periodo compreso fra l'anno scolastico 2004-05 e quello 2007-08 il numero di diplomati degli istituti tecnici italiani si è ridotto da 181.099 a 163.915, con un gap rispetto alla domanda potenziale da un minimo di circa 24mila unità (nel 2005) a un massimo di oltre 127mila diplomati tecnici (nel 2007)».

Le immatricolazioni universitarie sempre in calo
Altra nota dolente che emerge dalla fotografia dell'Istat è il continuo calo delle iscrizioni all'università. Secondo la Strategia Europa 2020 il 40% dei 30-34enni deve avere un'istruzione universitaria o equivalente. La media Ue è pari al 32,2% e dieci paesi (tra i quali Francia e Regno Unito) hanno già superato il livello atteso. Il Piano nazionale delle riforme fissa l'obiettivo per l'Italia tra il 26 e il 27%, con un incremento atteso di circa 7 punti percentuali rispetto al valore attuale (19,8 per cento), in linea con la tendenza mediadegli ultimi 6 anni.

In più, le università italiane non sono al passo con quelle di Europa, Giappone e Stati Uniti: tra le prime 100 nel mondo 75 sono distribuite in Usa, Regno Unito, Giappone e Germania, mentre per vedere apparire l'Italia occorre allargare la classifica alle prime 200, dove figura con il 2% dietro Francia (3,5%) e Germania (7 per cento).
 23 maggio 2011

Rapporto Istat/Rischio povertà o esclusione per 24,7% italiani
Roma, 23 mag (Il Velino) - Nel nostro Paese circa un quarto della popolazione (24,7 per cento) sperimenta il rischio di povertà o esclusione, un valore superiore alla media Ue (23,1). È quanto emerge dal “Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010” elaborato dall’Istat, in riferimento alla Strategia Europa 2020 che delinea le grandi direttrici politiche per stimolare lo sviluppo e l’occupazione nell’Ue. È possibile distinguere alcuni sottogruppi che si differenziano per tipo e gravità della condizione osservata: il rischio di povertà è il sintomo più diffuso e, nella maggior parte dei casi (12,5 per cento della popolazione, corrispondente a 7,5 milioni di individui), non si associa a nessuno degli altri due. È contenuta in termini relativi la diffusione del solo sintomo di grave deprivazione (2,9 per cento; 1,7 milioni di persone) o del solo sintomo di intensità lavorativa molto bassa (3,0 per cento; 1,8 milioni). Solo l’uno per cento della popolazione residente (circa 611 mila individui) vive in una famiglia contemporaneamente a rischio di povertà, deprivata e a intensità di lavoro molto bassa.

 A livello territoriale i differenziali appaiono consistenti fortemente a sfavore del Mezzogiorno, dove la quota delle persone che si trovano contemporaneamente nelle tre condizioni di rischio considerate dalla Strategia Europa 2020 è superiore al 2 per cento (circa 469 mila individui). Nelle regioni meridionali, dove risiede circa un terzo della popolazione nazionale, vive il 57 per cento delle persone a rischio di povertà o esclusione (in almeno una condizione di disagio) e il 77 per cento di quelle con tutti e tre i sintomi (rispettivamente 8,5 milioni e 469 mila individui). Le situazioni più gravi si riscontrano in Sicilia, dove i tre indicatori assumono i valori massimi: il 39,9 per cento dei residenti è a rischio di povertà, il 18,8 per cento è in grave deprivazione e il 15,7 per cento vive in famiglie a bassa intensità lavorativa. I valori sono elevati anche in Calabria e Campania. Da segnalare la Puglia, per il dato riferito alla grave deprivazione (10,7 per cento) e la Basilicata per quello relativo alla bassa intensità lavorativa (14,0 per cento).

 Le persone anziane sole, quelle che vivono in famiglie con tre o più figli, in quelle con membri aggregati o dove è presente un solo genitore presentano i livelli più elevati di rischio di povertà ed esclusione: oltre un terzo degli appartenenti a questi gruppi si trova almeno in una delle condizioni di rischio considerate dalla Strategia. Considerando anche altri indicatori di povertà, negli ultimi anni in Italia la povertà relativa (basata sulla distribuzione della spesa per consumi) ha registrato una sostanziale stabilità: 2,7 milioni di famiglie povere (il 10,8 per cento nel 2009) e quasi 7,8 milioni di persone (il 13,1 per cento della popolazione). La stabilità è confermata dalla misura di povertà assoluta (basata sulla valutazione monetaria di un paniere di beni e servizi considerati essenziali) che coinvolge nel 2009 1,2 milioni di famiglie (4,7 per cento) e 3,1 milioni di persone (il 5,2 per cento della popolazione).
(red/mlm) 23 mag 2011 10:06

Il declino non è obbligato
MARIO CALABRESI
Agli italiani il rapporto annuale dell’Istat, presentato ieri, non dice assolutamente niente di nuovo. A loro non serve. Racconta cose che già sanno, che sentono sulla loro pelle ogni giorno: la paura di scivolare nella povertà, il calo del potere d’acquisto, la minore capacità di risparmiare e il gonfiarsi del numero dei giovani che non trovano lavoro e passano le loro giornate tra il divano della casa dei genitori, il computer e l’aperitivo in piazza.

 Il rapporto dell’Istat sarebbe invece utilissimo per la nostra classe di governo, convinta che i problemi del nostro futuro si chiamino «spostamento di un paio di ministeri al Nord» o «sanatoria delle multe automobilistiche». Per tutti i nostri politici dovrebbe essere una lettura obbligatoria, per aprire loro gli occhi, per scuoterli, per indicargli le priorità e le ragioni di allarme.

 Per mostrargli quella fotografia del Paese che si ostinano a non vedere, che non li tocca, non li scuote, non riesce a togliergli il sonno.

 Eppure i segnali sono ovunque intorno a noi: sono i giovani spagnoli che hanno trovato il coraggio di riunirsi permanentemente al centro di Madrid (denunciando gli stessi identici disagi dei nostri ragazzi); è il voto delle amministrative che cerca sbocchi inediti e porta il movimento di Beppe Grillo a superare la soglia del cinque per cento in città importanti come Bologna, Milano o Torino; è il flusso in continuo aumento di chi va a cercare fortuna all’estero, è il numero esplosivo dei ventenni che non studiano e non lavorano, un pezzo di generazione futura che sta immobile e rischia di essere perduta per sempre.

 Da qui dobbiamo partire, da quei due milioni e centomila cittadini tra i 15 e i 29 anni che non fanno nulla. Sono oltre il 22 per cento dei giovani italiani, non hanno alcun reddito ma non li vediamo sotto i ponti perché vivono degli stipendi dei genitori, delle pensioni dei nonni e dei risparmi delle generazioni che li hanno preceduti. Una società di adulti che si sente in colpa perché non è stata capace di creare anche per loro un’occasione accetta in silenzio che vivano in una triste vacanza perenne, peggiorando così la situazione. Chi ci governa dovrebbe alzarsi ogni mattina proponendo una soluzione, cercando di far ripartire il mercato del lavoro, cercando di creare nuove opportunità e investendo nella scuola e nella formazione. Invece la nostra spesa per ricerca e sviluppo è la metà degli obiettivi stabiliti dall’Europa. Eppure, come ci racconta oggi un grande professore dell’università californiana di Stanford, esiste un legame fortissimo tra gli investimenti nell’istruzione e nelle nuove generazioni e la crescita dell’economia di un Paese.

 Politici e genitori dovrebbero dire a gran voce ai nostri ragazzi che sono loro il futuro, che devono avere fiducia, che tutti giocheremo la loro partita, sono cose di una tale banalità che non andrebbero nemmeno scritte. Sarebbe come se qualcuno cominciasse a ricordare che la terra con i semi appena piantati va bagnata ogni giorno perché da lì nasceranno i fiori e le piante, che se la lasciamo seccare non avremo nessun raccolto futuro. Eppure questa volta le leggi di natura sembrano dimenticate: le nuove generazioni non meritano investimenti, non meritano fiducia e nemmeno impegno. Il messaggio di sfiducia è talmente forte e chiaro che siamo al quart’ultimo posto in Europa per numero di laureati e le immatricolazioni all’università dopo anni di costante incremento da un biennio hanno cominciato a calare visibilmente.

 C’è chi, per levarsi un peso dalla coscienza, sostiene che queste nuove generazioni non valgono granché, sono disinteressate, distanti e apatiche, in fin dei conti la colpa è loro se sono chiusi fuori.

 In un cartello innalzato dalla folla dei ragazzi di Madrid, si leggeva: «Siamo la generazione più preparata e la meno valorizzata». Nei curriculum che arrivano a questo giornale ogni giorno sono sempre di più quelli dei disoccupati che hanno una laurea, un master e parlano almeno due lingue: hanno fatto tutto quello che gli era stato chiesto e hanno avuto famiglie che hanno investito su di loro. Se non c’è spazio non possiamo colpevolizzarli, dobbiamo cominciare a creare nuove opportunità, allargare il mercato del lavoro sintonizzandoci sul mondo che è cambiato a gran velocità e far cadere muri e barriere.

 E dovremmo vergognarci di aver fatto uscire dal mercato del lavoro 800 mila donne, che hanno avuto la grave colpa di aver messo al mondo un figlio. Non solo non aiutiamo fiscalmente in modo serio le famiglie, ma rendiamo impossibile ad una madre conciliare lavoro e maternità. Un altro segno che va contro la natura.

 Il declino non è una strada obbligata, l’Italia è piena di energie, di intelligenze, di persone che fanno sacrifici e sforzi, ma questi giacimenti positivi faticano sempre più a trovare uno sbocco, una direzione, una declinazione dell’idea di futuro. E così ci troviamo obbligati a censire scoraggiati e disillusi, mentre a Roma ci si ingegna per mettere in cantiere un nuovo bel rimpastino di governo.

Rassegnazione, male italiano
IRENE TINAGLI
Tutti a casa». Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia.
 Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa.
 Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile.
 Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.

Un quarto di povertà
Redditi in calo ma come in Europa
di Michele Arnese  
Un italiano su quattro sperimenta la povertà. Così ieri è stato presentato il rapporto annuale dell'Istat sulla situazione del paese nel 2010. Dalle 416 pagine dell'analisi dell'Istituto nazionale di statistica è stato estrapolato un numero arrivando alla conclusione che l'Italia sta scivolando praticamente nella miseria.
Eppure, soffermandosi sulle dieci pagine delle 416 del rapporto che hanno attirato le maggiori attenzioni, se il dato viene contestualizzato, storicizzato e comparato, come fa la stessa ricerca dell'Istituto nazionale di statistica presieduto da Enrico Giovannini, i numeri assumono un'altra, diversa, connotazione.
Non c'è dubbio che «in termini percentuali in Italia, nel 2009, considerando i redditi disponibili per le famiglie a seguito dei trasferimenti sociali (che, nel nostro paese, consistono quasi totalmente nei trasferimenti pensionistici), quasi un quinto della popolazione residente (il 18,4 per cento) risulta a rischio di povertà».
Ecco la frase clou.
Il valore osservato, aggiungono i ricercatori dell'Istat, è più elevato della media europea, sia essa calcolata sui paesi dell'area euro (15,9 per cento), sia essa calcolata sull'Unione a 27 (16,3 per cento)».
Ma livelli simili a quello italiano caratterizzano Grecia (19,7 per cento), Spagna (19,5 per cento), Portogallo (17,9 per cento) e Polonia (17,1 per cento).
Mal comune mezzo gaudio? No. Perché proprio «questi quattro paesi», aggiunge il rapporto, «mostrano valori di reddito medio e mediano inferiori a quelli registrati in Italia, la quale è caratterizzata da un valore superiore a quello medio dell'Unione a 27 e prossimo a quello medio dei 17 paesi dell'area euro».
Inoltre, come rimarcano i ricercatori Istat in una nota a pie' di pagina, «se si considerano le variazioni su più anni, tra il 2007 e il 2009 si osserva una diminuzione significativa del rischio di povertà».
Insomma, la discesa verso la povertà assume altri connotati se si guarda una tabella del rapporto Istat: quella che confronta la situazione degli Stati dal 2005 al 2009.
Ebbene la percentuale di popolazione di famiglie a rischio povertà dopo i trasferimenti sociali negli ultimi quattro anni in Italia è calata e non aumentata: infatti era del 18,9 per cento nel 2005 ed è diventata del 18,4 per cento nel 2009. Invece in Francia la percentuale è rimasta pressoché stabile al 13 per cento e in Germania è addirittura cresciuta, passando da 12,2 al 15,5 per cento.
Stessa tendenza si riscontra per un altro indicatore usato dall'Istat, quello della «popolazione in famiglie a rischio di povertà o esclusione».
Il dato italiano (24,7) ha fatto sensazione, eppure è di poco superiore alla media dei 27 Paesi dell'Unione ed è in leggero calo rispetto al 2005, quando fece segnare quota 25 per cento. Non solo: in Germania il dato è cresciuto dal 18,4 per cento del 2005 al 20 per cento del 2009.
Anche nell'analisi di un terzo indicatore di povertà i dati singoli sono meno sensazionali se sono confrontati. Secondo l'Istat, un elevato valore dell'indicatore di «rischio di povertà» associato a un ridotto valore per quello di «grave deprivazione» indica una marcata disuguaglianza nella distribuzione del reddito ma standard di vita accettabili anche per i più poveri. È questo il caso di Estonia, Spagna e Regno Unito, ma anche dell'Italia, dove nel 2009 le persone «gravemente deprivate» sono circa il 7 per cento, valore questo superiore alla media dei paesi dell'area euro, 5,6 per cento, ma inferiore a quello calcolato sull'Unione a 27 (8,1 per cento).
Infine, l'indicatore «di esclusione dal mercato del lavoro» mostra che in Italia, nel 2009, quasi il 9 per cento delle persone di età inferiore ai 60 anni (il 6,6 per cento del totale della popolazione) vive in una famiglia a intensità lavorativa molto bassa; il dato «è prossimo alle medie europee (8,9 e 9,0 per cento rispettivamente per l'area dell'euro e i 27 dell'Unione)». Valori simili a quello italiano si osservano in Danimarca (8,5 per cento), Malta (8,4 per cento), Francia e Paesi Bassi (8,3 per cento).

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