mercoledì 8 giugno 2011

Il pil ed il cazzo di plastica


DIARIO DI UN VENDITORE, di Valter Binaghi, del 5 novembre 2010.
Italia: no industria, no Pil




Un altro colloquio come questo e mando tutto a fare in culo.
 Va bene la pagnotta, ma a tutto c’è un limite. Già prima di risponderti al citofono lo senti che ti passano ai raggi x, e lì ripensi a come sei messo, se i capelli sono a posto o quella maledetta rosa si è alzata di nuovo e la casalinga dal suo bunker può scambiarti per un punkabbestia, se la barba te la sei fatta almeno ieri, se come dice sempre la tua lei è uno di quei giorni che hai un broncio incancellabile e l’occhiata criminale di chi sta per alitare napalm sul mondo intero.
 Alla fine ti aprono, ma non è mica finita. Prima il portiere che ti squadra come un pezzente (la borsa, quella maledetta borsa floscia che svela il venditore porta a porta, ma perché non puoi mettere tutto in una ventiquattrore e sembrare un assicuratore o un impiegato qualsiasi? Perché la tua merce lì dentro non ci sta, ecco perché); poi l’ascensore, un paio di ninfette grassocce che sbirciano e ridacchiano, le facce già rovinate da troppo trucco per nascondere i brufoli, scommetto che ci godrebbero un mondo se gli rivolgessi la parola, per poi raccontare a scuola che un rumeno ha tentato di stuprarle nel garage.
 Non sono rumeno, e nemmeno marocchino, la mia famiglia vive nel varesotto da tempo immemorabile e mio zio è pure segretario della Lega a Cacate di Sotto, ma la signora ha solo aperto la porta, mica ha levato la catenella, prima deve farmi il terzo grado.
 - E’ lei che ha telefonato? –
 - Si signora –
 - E mi ha lasciato il suo nome, ho preso nota sa? Signor…–
 - Crocetti. Dino Crocetti –
 - Ma no!….Come… -
 Si signora, Dino Crocetti, come il vero nome di Dean Martin. Sono in pochi ormai a ricordarselo, complimenti, ma quello non aveva niente a che fare con me. Un simpatico ubriacone, cresciuto alla corte di Frank Sinatra, cantante di un certo brio e soprattutto attore, e mica solo spalla di Jerry Lewis eh! Si ricorda “Un dollaro d’onore”, dove lui fa il vicesceriffo alcolizzato che si redime mettendosi contro la feccia del paese e rischia la pelle per assicurare un criminale alla giustizia?
 Complimenti signora, lei ha una cultura filmica peggio di mia madre che conosce a memoria tutte le battute della serie di Don Camillo, dico, sono cinque film (va bene che girano una volta all’anno da vent’anni su ReteQuattro). Adesso che abbiamo sciolto il ghiaccio possiamo finalmente aprire il campionario e parlare di acquisti? Ovviamente dev’essere lei a parlarne per prima, le indicazioni del capo su questo punto sono ferree.

Assolutamente niente pressioni. La natura particolare della merce impone che sia il cliente ad arrivare al dunque. Tu stai lì buono, accetta il livello della conversazione e aspetta.

No, non possiamo. Prima dobbiamo divagare su cinema italiano e straniero, televisione spazzatura (“Insopportabile, non trova?” “Trovo”) e serate troppo solitarie, data la fedifraga bassezza di un genere maschile di cui la cliente ha avuto tutto il tempo di disgustarsi (visto che, a occhio e croce, veleggia intorno alla sessantina).
 Finalmente, arriviamo al punto. Si può aprire la borsa.
 In totale un’ora e mezza di visita, spostamenti compresi, per una provvigione che si aggirerà intorno ai venti euro al netto. E non è mica un caso isolato, anzi è la norma. Perché non è colpa mia (in ditta passo per un agente tra i più produttivi) né della signora, se la mia merce richiede tutta questa circospezione preliminare, dal momento che io vendo vari tipi di gel, vibratori e dildo, vale a dire cazzi di plastica.

Non ti venga in mente di usare espressioni del genere! Noi commerciamo in coadiuvanti sessuali. Chiaro? Il clima dello scambio deve avvenire nella più totale assenza di volgarità, niente ammiccamenti, niente allusioni al carattere sostitutivo della pratica. Si tratta di strumenti terapeutici, integrativi, come quelli alimentari.
 Hai presente la lecitina di soia?

Chiarissimo capo. I cazzi di plastica sono coadiuvanti sessuali, come del resto i moribondi sono malati terminali, gli aborti interruzioni di gravidanza e gli spazzini operatori ecologici. E’ il dizionario del nuovo millennio. Una specie di patina estetico-sanitaria che avvolge il linguaggio e lo depura di ogni asprezza, di ogni riferimento a ciò che è smoderatamente corporeo o irrimediabilmente guasto. E’ la neolingua.

Che cazzo sarebbe la neolingua? Un romanzo, dici? Orwell? Mai sentito. Mai avuto tempo di leggere romanzi io, a diciannove anni ho aperto la prima società.

Io invece di tempo ne ho avuto, e ho persino provato a scriverne uno. Pensi capo che sono laureato in Lettere moderne. Dopo due anni da precario in una scuola media ho capito che non faceva per me, no, non per lo stipendio o la precarietà dell’impiego, è che mi pareva di prenderli per il culo quei poveri sbarbati, a rompergli le scatole con Leopardi e Manzoni che poi qua fuori trovano gente come lei. E allora sono passato al commercio.
 Cazzi di plastica, pardon, coadiuvanti sessuali. E come sa, non mi chiamo nemmeno Dino Crocetti. Quello è una specie di “nom de plume”, come l’altro, Mario Girotti alias Terence Hill, tutta farina del suo sacco, lei sì che è un genio.

Usa il primo se hanno più di cinquant’anni, il secondo se ne hanno di meno. L’età è sui tabulati. Se non funziona pazienza ma due volte su tre funziona. Le fa sentire attive, intellettualmente sveglie, partecipi. Scioglie il ghiaccio perché offre immediatamente, quando sei ancora sulla porta, un argomento di conversazione. Poi sta a te, ma ricordati che se hanno accettato l’incontro è perché della merce hanno un gran bisogno, ma in totale riservatezza. Questa è gente che non andrebbe mai in un sex shop ad acquistare e non prende l’iniziativa dell’acquisto per corrispondenza perché ha le sue inibizioni ad ammettere il bisogno. Ma una volta che glielo si offre…

Ecco, è arrivato l’autobus. Adesso mi siedo e mi leggo il giornale. Posti liberi ce n’è sempre, a quest’ora e in questa zona, la maggior parte sono scesi prima. La pagina culturale è come quella di ieri: scrittori di sinistra pubblicano su giornali di destra, scandalo negli ambienti progressisti, la polemica infuria in Rete. Due palle. Cominciare dalla pagina culturale è una specie di vizio, mi ricorda i tempi dell’università, la mia tesi sul concetto di letteratura popolare in Antonio Gramsci. Sarebbe meglio dimenticarseli invece quei tempi, per me e per tutti.
Mi chiamo Riccardo Baronio, e vendo cazzi di plastica.
DIARIO DI UN VENDITORE, di Valter Binaghi, del 5 novembre 2010.

Italia: no industria, no Pil
di Luca Paolazzi.
L'industria manifatturiera è davvero così importante? Perché preoccuparsi se chiude qualche fabbrica (molte, negli ultimi tempi)? I servizi, in fondo, danno molto di più al Paese, in termini di posti di lavoro e reddito prodotto, ed è scritto nei libri che l'avanzata del terziario è l'inesorabile segno del progresso di un sistema economico, l'ultimo stadio del suo sviluppo.
Un processo naturale e fondato su precise dinamiche: la specializzazione delle catene del valore che porta (portava?) le imprese manifatturiere ad affidare all'esterno attività terziarie; l'aumento della domanda di servizi da parte delle famiglie al salire del reddito; la richiesta di servizi avanzati da parte della stessa industria, che incentra la competitività sull'immateriale e la conoscenza; il ridisegno della divisione internazionale del lavoro. L'Italia o alcune sue macroregioni non potrebbero dedicarsi proprio al terziario, lasciando al suo destino un settore, il manifatturiero, da archiviare come un bel capitolo di storia?

Queste domande che carsicamente riaffiorano nel dibattito pubblico. Specie nei momenti di recessione e quindi di ritirata della produzione industriale, più sensibile alle oscillazioni cicliche. Che trovano facile eco in una cultura che non è mai stata troppo simpatetica con le sorti delle imprese manifatturiere (ingombranti, inquinanti, olezzanti).

Ha fatto bene, perciò Il Sole 24 Ore a lanciare un'inchiesta su ciò che impedisce all'industria di crescere. E alla centralità del manifatturiero è dedicata una parte di Scenari Industriali, il rapporto annuale del Centro Studi Confindustria sulle tendenze globali del manifatturiero, che sarà discusso domani (in Viale dell'Astronomia a Roma).

Nell'ultimo quarto di secolo il peso del manifatturiero si è quasi dimezzato in Italia. Sia in rapporto al valore aggiunto: dal 29,6% del 1976 al 16,6% del 2010. Sia in termini di occupazione: dal 28,1% del 1977 al 17,5% dell'anno scorso. Tendenze analoghe, e perfino più accentuate, si sono osservate nelle altre maggiori nazioni avanzate. Tuttavia, proprio queste ultime hanno rivalutato il ruolo del manifatturiero, anche per la nuova luce gettata dalla crisi sulle fonti durature del benessere. Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno avviato riflessioni e varato misure per puntare con decisione sul rilancio dell'industria manifatturiera. La Germania l'ha fatto da tempo. L'Italia appare in ritardo.

Il manifatturiero, infatti, continua a essere la 'sala macchine' della crescita perché dalla sua attività originano i guadagni di produttività dell'intero sistema economico attraverso cioè le innovazioni incorporate nei beni utilizzati nel resto dell'economia. Il manifatturiero crea posti di lavoro mediamente qualificati e ben remunerati, sempre più nelle produzioni basate sulla conoscenza. Nel manifatturiero viene effettuata la gran parte della ricerca di base e applicata del settore privato. Dal manifatturiero, in particolare per un Paese povero di risorse naturali, provengono i beni esportabili che servono a pagare le bollette energetiche e alimentari e a finanziare gli acquisti di beni e servizi all'estero.

Perciò la sua importanza va molto al di là di quanto non rivelino le statistiche sul suo apporto diretto al valore aggiunto e ai posti di lavoro nell'intera economia. Per documentare questa importanza, Pasquale Capretta e Massimo Rodà, del CsC, hanno condotto due simulazioni. La prima misura l'incidenza effettiva del manifatturiero nel sistema economico italiano, considerando l'interazione tra i settori e la spesa generata con i redditi prodotti al suo interno. La seconda evidenzia gli effetti, dovuti all'operare del vincolo dei conti con l'estero, di una massiccia riduzione delle esportazioni manifatturiere.

Il peso complessivo effettivo del manifatturiero sull'economia italiana è il doppio di quello indicato dalla sua quota diretta sul valore aggiunto totale. La misura si ricava guardando alle conseguenze di un calo del 10% dell'attività manifatturiera: si avrebbe una riduzione del Pil pari al 3,4%, anziché l'1,7% ipotizzabile in base all'incidenza delle produzioni manifatturiere; anche la diminuzione dell'occupazione sarebbe doppia.
La propagazione degli effetti sull'intero sistema economico è amplificata direttamente dal venir meno della domanda attivata negli altri settori dalle imprese manifatturiere e indirettamente dalla diminuzione di occupazione e redditi all'interno del manifatturiero che determinerebbe una contrazione degli acquisti di beni e servizi prodotti nel resto dell'economia.

Se, ragionando per assurdo, il settore manifatturiero sparisse improvvisamente, se ne andrebbe più di un terzo dell'intero sistema economico: -34% il valore aggiunto, -8,2 milioni di unità di lavoro e -36% il monte salari. Poiché le esportazioni sono costituite per oltre il 78,0% da prodotti manufatti, se non avesse beni industriali da vendere all'estero l'Italia dovrebbe rinunciare alla quasi totalità delle importazioni e non sarebbe in grado di procurarsi le materie prime, a cominciare dall'energia, il cui acquisto è finanziato proprio dal surplus negli scambi di manufatti con l'estero.

Proprio per illustrare il ruolo preponderante dell'industria manifatturiera nelle esportazioni italiane, il CsC ha effettuato una seconda simulazione: sono stati misurati gli effetti sul sistema economico italiano della riduzione permanente del 20% delle esportazioni e dei conseguenti aggiustamenti necessari a riportare in pareggio i conti con l'estero.
Le ripercussioni sarebbero drammatiche: il Pil cadrebbe progressivamente fino a ridursi del 15% dopo otto anni (-8,4% già nel primo); gli investimenti verrebbero tagliati del 17,2% (-10,4% nel primo anno). La minore domanda interna alla fine porterebbe alla diminuzione delle importazioni (-22,6%) necessaria a riequilibrare la bilancia commerciale. Questi contraccolpi sono tre volte maggiori di quelli derivanti dalla meccanica applicazione del peso dell'export sul Pil (26,8%). Il vincolo del mantenimento dei conti con l'estero in pareggio ha effetti moltiplicatori terribili ma ineluttabili.

Ciò evidenzia come in Italia, più che in altri Paesi che hanno giocato altre carte ma che comunque stanno cercando di recuperare la centralità dell'industria, senza export manifatturiero si avrebbe l'implosione dell'intero sistema economico. Il ragionamento funziona anche all'incontrario: solo l'espansione delle esportazioni consente di generare risorse in modo compatibile con l'aumento delle importazioni che la spesa di quelle risorse causerebbe. E solo da un manifatturiero vitale e competitivo può originare la crescita dell'export.
 8 giugno 2011

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