domenica 21 novembre 2010

Il migrante che si reinventò imprenditore


21 novembre 2010
Lunedì scorso la Fondazione Italiadecide ha presentato al Presidente della Repubblica il rapporto "L'Italia che c'è", già anticipato da Giuliano Amato nella sua rubrica domenicale su questo giornale. Due sono le tesi che lo innervano. Una economica: senza modernizzazione delle reti territoriali, infrastrutturali, finanziarie, telematiche, per arrivare a quelle della sanità, dell'università e delle istituzioni pubbliche, non reggeremo l'urto della globalizzazione e della sua crisi. Una politica: le reti per la modernizzazione, come la storia dimostra, producono anche l'humus che alimenta il comune sentire, il convivere, l'identità di un popolo.
Da qui la centralità del ragionamento a 150 anni dall'unità del paese. Reti che fanno economia e nazione, ma anche società. Per questo occorre volgere lo sguardo anche alle reti che canalizzano il magma della nuova composizione sociale. Dove si agitano 5 milioni di immigrati che lavorano e vivono nel nostro paese, producendo l'11% del Pil. Alcuni di loro li abbiamo visti a Brescia e a Milano in cima alle gru e alle ciminiere, che protestavano per il permesso di soggiorno, alla stessa maniera usata dalla nostra classe operaia quando sceglie forme estreme per tutelare il lavoro. Sono parte del nostro capitalismo molecolare, della nostra imprenditoria di popolo. Una ricerca condotta da Cna e Caritas su dati Infocamere ci dice che nel pieno della crisi il saldo tra imprese nate e cessate è sempre risultato positivo, benché fiaccato da minore proliferazione complessiva.
A fine maggio 2010 le imprese a guida di persone nate fuori dal paese sono oltre 213mila, che diventano quasi 390mila se si considerano soci (spesso di cooperative) e amministratori. La quasi totalità di questo parco imprese è a titolarità individuale, metà di esso iscritto all'albo delle imprese artigiane, con una presenza femminile che si avvicina al 20%. Due sono gli ambiti privilegiati nel quale operano queste micro imprese: edilizia e piccolo commercio, settori nel complesso tra i più colpiti dalla crisi. Insieme fanno quasi il 75% delle attività, mentre un altro 10% è fatto di imprese che operano nel comparto della subfornitura industriale. Così come sembra delinearsi una certa specializzazione produttiva, i dati evidenziano una stabile tendenza anche in rapporto alla provenienza dei titolari stessi, che fanno capo ai gruppi nazionali più rappresentati nel paese: marocchini, romeni e albanesi, cui si affianca la componente cinese sul versante delle imprese commerciali, per un totale di circa 2,5 miliardi di euro di redditi dichiarati.
A conferma che l'imprenditoria straniera in Italia appare un fenomeno che si evolve secondo direttrici sempre più definitive vi è la componente della distribuzione territoriale. Quasi il 90% delle imprese è concentrato nell'Italia centro-settentrionale, ricalcando la geografia delle piattaforme produttive più importanti del paese: Milano e pedemontana lombarda, pedemontana veneta, via Emilia, Torino-Canavese, Grande Roma e Valle dell'Arno. La Lombardia, da sola, ospita quasi un quarto del totale delle imprese secondo una ripartizione territoriale e di settore a sua volta ormai piuttosto definita.
Se si prendono i dati raccolti ed elaborati da Ismu, che riguardano gli occupati in genere, è evidente come la loro distribuzione tenda sempre più a ricalcare le vocazioni produttive dei sottosistemi regionali: l'area metropolitana milanese vede una preponderanza di cinesi e sudamericani (commercio, piccola logistica, servizi di pulizie e manutenzione); l'area pedemontana dell'industria manifatturiera è quella maggiormente presidiata dalla componente nordafricana; l'area della bassa padana centro-occidentale a forte concentrazione edile vede prevalere la componente est europea, mentre l'area della bassa padana centro-orientale a vocazione agricola è maggiormente presidiata dalla componente asiatica indo-pakistana.
La distribuzione territoriale, la specializzazione produttiva e l'omogeneità nazionale rappresentano altrettanti indizi della presenza di reti corte, network familiari e di comunità etno-nazionale attraverso i quali passa anche il dinamismo imprenditoriale, oltre che le reti di solidarietà e di mutualità, magari secondo principi che ai nostri occhi possono apparire ben poco "democratici", ma efficaci di fronte a un contesto legale poco accogliente. Fin qui la storia delle prime generazioni di immigrati, quelle impegnate ad adattarsi nel modo più efficace possibile a un sistema di opportunità confinato ai piani bassi dell'economia e della società. Ma così non sarà per le seconde generazioni, quelle che oggi si affacciano numerose nelle nostre scuole condividendo un percorso educativo con i figli degli autoctoni. Questa popolazione giovanile, molto probabilmente, non avrà la stessa tempra adattiva dei padri e delle madri, nutriranno aspettative di vita e desiderio di partecipazione economica e sociale più sofisticata, costituiranno un potenziale bacino di creatività e innovazione, anche in senso imprenditoriale. Ciò, ovviamente, se il sistema sarà capace di introdurre dinamiche di accesso, inclusione, valutazione e valorizzazione del merito del talento dei giovani che riconoscano l'opportunità di porre a valore la diversità e la varietà all'interno di una cornice regolativa riconosciuta e comune.
Il tutto sarà possibile se nel costruire le reti sociali sapremo confrontarci, sia nel mondo del lavoro sia in quello dell'impresa, con quelle cose che chiamiamo: genere, nazionalità, etnia, culture, religoni...
Fonte:
http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-11-21/migrante-reinvento-imprenditore-063946.shtml?uuid=AYgQhYlC

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