domenica 21 novembre 2010

Miglio anti-italiano senza eredi.


di Roberto Festorazzi
Roberto Saviano ha attaccato da TeleFazio il professor Gianfranco Miglio, che, essendo morto da dieci anni, non può più difendersi. Saviano ha riesumato un’intervista di Miglio del 1999, impiccandolo a un’affermazione lapidaria a proposito della costituzionalizzazione delle mafie. Si trattava di una delle provocazioni intellettuali alle quali il giacobino nordista, che ha tenuto a battesimo la Seconda Repubblica, ci aveva abituato. Come l’esaltazione del linciaggio come forma di giustizia politica «nel senso più alto della parola», ai tempi in cui Gabriele Cagliari, il socialista Moroni e altri si suicidavano travolti dall’onda di Tangentopoli e Miglio esortava a non provare pietà.
Il paradosso della mafia-Stato andrebbe meglio contestualizzato, anzitutto per aiutare a comprendere il personaggio. Che cosa disse, in quella famosa intervista? Il Professore prese le mosse da una rivendicazione orgogliosa della “diversità” padana.
«Noi abbiamo nelle vene sangue barbaro, siamo legati al negotium, al lavoro. I meridionali invece vivono per l’otium, il dolce far nulla, i sollazzi, un totale disprezzo per la fatica. Questa è la storia dei due popoli. Una differenza antropologica, inutile star lì». Miglio riconobbe che il Sud fosse stato danneggiato dal processo di unificazione nazionale. Poi l’affondo: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».
Si può, anzi si deve dissentire da una provocazione così luciferina. Ma essa prese le mosse dallo studioso e dallo storico delle dottrine politiche, più che dall’uomo politico. Miglio, poi, quando pronunciò quella dichiarazione, aveva già rotto da un pezzo con Bossi, quindi l’affermazione non può essere usata oggi come arma contundente contro la Lega. Ma, al di là della sostanza, ci preme cogliere la radice della provocazione. Le mafie non si sconfiggono con i balli in piazza. Le mafie, oltre che essere imprenditrici, sono istituzioni politiche parallele: offrono protezione a tutti gli italiani che non vogliono diventare cittadini e inchinarsi alla legalità repubblicana, ma si accontentano di restare sudditi. È questa “statualità” delle camorre che va spezzata, altrimenti dobbiamo dare ragione a Miglio. Il quale già molto prima, nel 1992, all’epoca delle stragi, aveva seminato scandalo dichiarando che in fondo Cosa Nostra era un affare dei siciliani. Del resto, l’isola raffigurata da Forattini come la testa di un coccodrillo rappresentava, per il Prufesùr, un modello ideale di repubblica indipendente centro-mediterranea, per sua natura estranea alla Penisola che egli immaginava “elvetizzata”, cioè divisa in Cantoni.
Il problema riguardante Miglio, però, è un altro. Come mai, a parte la “sparata” di Saviano, attorno a questo figlio di Radetzky è calato un assordante silenzio? Per quale ragione nessuna cultura politica, nemmeno quella leghista di cui pure fu profeta, vuole associare al proprio Pantheon questo visionario antiitaliano rimasto senza eredi?
Oggi, un giovane di vent’anni forse non sa neppure chi era Gianfranco Miglio. E a penetrarne i segreti non ci hanno certo aiutato i “chierici” della cultura, vecchi e nuovi, che non l’hanno mai amato e non aiuteranno certo a riscoprirne la personalità eclettica e pirotecnica. Intestarsi Miglio non conviene a nessuno, tanto il personaggio – il cui pensiero e la cui profondità restano in gran parte inesplorati – è complesso e non riconducibile a una univoca matrice culturale e politica. Nell’era post-ideologica, il Professor Sottile va stretto a tutti, nel senso che la sua produzione dottrinale è per definizione ridondante in un Paese asfittico e allergico alle contaminazioni come il nostro.
Nemico giurato delle etichette, Miglio non potrebbe stare oggi in nessuna “casa” politica: non certo nella famiglia socialista, o democratica che sia, perché l’uomo ha combattuto tutta la vita le posizioni di sinistra, tenendosi stretta la definizione di “reazionario” che gli veniva rovesciata addosso a ogni piè sospinto. Diffidente di Berlusconi, tanto da aver inutilmente tentato di dissuaderlo dallo scendere in campo, Miglio non starebbe comodo nel centrodestra convenzionale, né si farebbe “parcheggiare” nella variamente composta galassia di partitini e sigle di centro, Fini compreso, anche se fin dal 1994 vaticinò per l’attuale leader di Futuro e libertà un avvenire al Quirinale. Infine, la “sua” Lega, che oggi non lo ricorda, non lo pensa, non lo ama, così come nessun altro nutre affetto per questo padre putativo della Seconda Repubblica. E, del resto, come si può conciliare il patrimonio ideale di Miglio – in un anticipo di un secolo sulla storia – con gli intrighi, i maneggi e il piccolo cabotaggio dell’era delle escort?
Purtroppo, duole ammetterlo, è l’anoressia mentale del presente ad aver sfrattato Miglio dal nostro panorama culturale. Il politologo del Gruppo di Milano, già negli anni Settanta-Ottanta, aveva previsto il tramonto dello Stato moderno, l’estensione dell’area del contratto-scambio, cioè del mercato, a spese della sfera dell’obbligazione politica. Miglio prevedeva addirittura il lento tramonto della democrazia elettivo-parlamentare, a vantaggio della promozione di nuove (ma, in realtà, antiche) forme di “delega”, legate alla organizzazione della rappresentanza per ceti, per strati sociali, con il progressivo abbandono della formula “una testa, un voto”. Miglio era un federalista e neocorporativista che giudicava con favore il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo nell’ambito di una radicale ridefinizione degli istituti della cittadinanza contemporanea. Perciò, fanno molto male tutti coloro che ne hanno dimenticato la grande lezione, per difetto di cultura. Ci sia consentito di ricordare Miglio, ma a modo nostro. Il principe dei politologi italiani, il secondo Machiavelli, non fu soltanto un uomo di dottrina, ma anche un insigne enogastronomo, di gusti sofisticati nella scelta della varietà del suo abbigliamento, tanto che si può forse parlare di un Miglio’s style, che vale la pena di raccontare.
Cominciamo dagli abiti. Si narra che, il sontuoso guardaroba del Professore, nella casa comasca di Salita dei Cappuccini (biblioteca di trentamila volumi, in stile “gotico”, con tanto di pulpito e confessionale adibito ad appendiabiti), fosse fornito di non meno d’un centinaio di camicie d’ogni foggia. Le preferite erano quelle a righine, che Miglio portava con il papillon alle sessioni d’esame in Università Cattolica.
Durante il quotidiano rito della vestizione, assistito dalla moglie Myriam, il Professore indossava giacche impeccabili che lo hanno consacrato nell’Olimpo dei gentiluomini mitteleuropei. Ricca la varietà di cappotti invernali, con pelliccia o senza, in pellame, e dei beretti, molto curiosi, con pon pon, alla scozzese, e così via.
Noi studenti, nelle giornate corte e nebbiose, a Milano lo vedevamo salire e scendere dal convoglio delle Ferrovie Nord, a Piazza Cadorna, oppure lo incrociavamo lungo il suo abituale tragitto da e verso la Cattolica, che sembrava Amundsen, l’esploratore dei ghiacci. Sul cranio calvo calava una coltre di pelo tipo colbacco. Leggenda vuole che il Professore calzasse, nei rigidi climi invernali, mutandoni di lana, un genere di capo praticamente estinto. E, con i pochi fidati che aveva intorno, se ne lamentava: «Ormai non si trovano più. Li ha in dotazione soltanto l’esercito».
Il treno era un must, nella vita di Miglio. Saliva alla stazione di Como Borghi e viaggiava, sempre e rigorosamente in prima classe, nelle vecchie carrozze della Nord, residuati svizzeri dell’anteguerra, con i sedili foderati di velluto rosso. Imprecava anche lui, come noi comuni mortali, per i ritardi e per il maltempo.
Anche a Roma, nell’ultimo decennio della sua vita, quando fu senatore della Lega e poi del Polo, si recava sempre in treno letto. L’aula di Palazzo Madama lo imbaldanziva: «Sembra un club inglese», diceva con una punta di civetteria, lui allergico da sempre al clima romano. Appena passata la linea gotica avvertiva il disagio. E si sentiva a casa soltanto quando, dal finestrino del suo scompartimento, poteva finalmente intravedere la cupola del Duomo di Como.
Le sue radici, cattoliche con una punta di luteranesimo, erano infatti ben piantate nell’alto Lario, a Domaso, dove da sempre la famiglia coltiva la vigna e produce il mitico Domasino, un vinello a bassa gradazione. La nonna materna era teutonica e lo fu anche la sua trisavola paterna, che contava le galline in tedesco: ein, zwei, drei. La sua patria era a Settentrione, il suo zenit puntato costantemente a Nord.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Miglio si dedicò a una delle sue più ciclopiche imprese, la realizzazione della Treccani padana, l’enciclopedia Larius in sei volumi, opera interamente dedicata al territorio e alla cultura del lago di Como, indivisibile patrimonio di memoria e di identità. La sua forza di volontà fu granitica e il parto prodigioso. Uno dei supplementi riguardava le varietà di pesci lacustri e il loro modo di cucinarli. Le ricette erano riprese da un testo cinquecentesco di un grande ittiologo italiano, Ippolito Salviano. Un autentico distillato di scienza allo stato puro, che culminava con la regina delle preparazioni culinarie: la carpionatura.
Prima di morire, il 10 agosto 2001, a 83 anni, il Professore volle lasciare un’ultima lezione di stile, recandosi personalmente nel Vercellese, accompagnato dal figlio Leo, a scegliere il marmo per la sua tomba. Alla morte di Carl Schmitt, da lui definito «il grande vegliardo della politologia europea», Miglio, il 17 aprile 1985, aveva scritto, sul Sole 24 Ore, un articolo che fu poi intitolato “Sulla bara di Carl Schmitt”. Celebrandone la scienza, aveva sentenziato: «Come tutti i predecessori, egli ha visto legata la sua grandezza alla contemporaneità con una fase drammatica dell’evoluzione delle istituzioni e del sistema politico». Lo stesso si potrebbe dire per Gianfranco Miglio.
Fonte: 
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/299939_miglio_anti-italiano_senza_eredi_di_roberto_festorazzi/

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