venerdì 14 gennaio 2011

Benvenuti nella regione Salerno

Valentina Melis e Gianni Trovati
«Mai!». Al Carroccio può non piacere, ma l'esempio più luminoso dell'orgoglio longobardo arriva dal profondo Sud. Siamo a Salerno, è il 774, e Arechi II risponde così alla richiesta di sottomissione ai Franchi dopo che Carlo Magno aveva sconfitto a Pavia Desiderio, suocero di Arechi, e aveva cancellato dalle cartine la Langobardia Maior.


Arechi non è stato dimenticato, e ora vogliono intitolare a lui la futura regione di Salerno, la resurrezione del principato appena chiesta da 60 comuni della provincia che si vogliono staccare dalla Campania. L'idea è nata nella mente di Edmondo Cirielli, il presidente della provincia di Salerno che ideò e poi "ripudiò" la legge per accorciare i tempi di prescrizione ed evitare il carcere a Cesare Previti nel processo Imi-Sir, e ha subito avuto successo: la Cassazione deciderà il 1° febbraio sulla richiesta depositata da 54 comuni della provincia (420mila abitanti, 70mila più del quorum), e nel frattempo altre sette amministrazioni hanno approvato la delibera con l'adesione al progetto. Se tutto va come deve, Cirielli conta di affrontare il referendum a giugno, per poi imbarcarsi nella modifica costituzionale in Parlamento.
Oltre a Longobardi e principati, alla base della proposta ci sono due ragioni che non si trovano nei libri di storia ma sui giornali: «Essere accomunati a Napoli e ai suoi disastri sui rifiuti è un danno d'immagine che non possiamo più sopportare», spiega Cirielli che, mentre il capoluogo di regione passa da emergenza a emergenza, vanta per la sua provincia una percentuale svizzera (60,2%, quarto posto in Italia) nella raccolta differenziata. Poi, come in ogni secessione che si rispetti, c'è un problema di soldi: nei calcoli di Cirielli l'autonomia da Napoli vale almeno 500 milioni all'anno, perché «la provincia versa due miliardi di addizionali Irpef e Irap e ne riceve meno del 75% in termini di spesa e servizi».
All'indipendentismo cilentano guardano molti occhi interessati. Se il referendum darà la giusta spinta, giurano i promotori, molti sono pronti a salire sul treno della nuova regione, da Avellino a Benevento, ma in zona è tutto un ribollire di creatività geografica. A maggio, quando le ipotesi di cancellazione delle mini-province stavano per condurre sul patibolo quella di Isernia, la coordinatrice beneventana del Pdl, Nunzia Di Girolamo, aveva rispolverato la vecchia idea del Molisannio, una regione che dovrebbe unire Benevento al Molise; insieme a Moldaunia (Molise + Daunia, a nord della Puglia), Sannio-Irpinia-Cilento, Grande Lucania, non c'è confine ballerino che non abbia il proprio bravo comitato promotore. A Salerno guarda poi ovviamente il Grande Salento, che il 1° febbraio dovrà passare insieme agli indipendentisti salernitani lo stesso esame alla Cassazione per far partire la macchina referendaria.
Il referendum è il primo scoglio, perché per passare deve spingere al sì «la maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali dei comuni nei quali è stato indetto» (lo prevede la legge 352/1970). I problemi veri, però, vengono dopo. L'elenco delle regioni è scritto all'articolo 131 della Costituzione, e per cambiarlo serve una legge approvata quattro volte con i due terzi del Parlamento per essere messa al riparo da nuovi referendum conservativi.
Conoscono bene tutte le difficoltà i comuni che negli anni hanno accolto con plebisciti entusiasti l'idea di abbandonare Veneto o Piemonte per abbracciare le gioie dello Statuto speciale. San Michele al Tagliamento ha chiamato alle urne i propri cittadini nel 1991, ha ottenuto l'89% di voti per il passaggio al Friuli, è riuscito a far dichiarare incostituzionale la vecchia legge che imponeva il "sì" degli enti rappresentanti di almeno un terzo della popolazione delle regioni interessate. Nonostante tutte le vittorie, però, il comune rimane saldamente ancorato alla provincia di Venezia, come sono rimasti finora in Veneto Cortina e gli altri comuni dell'alto bellunese che hanno alle spalle una battaglia ventennale.
Con il via libera al referendum da parte di tutta la provincia di Belluno, ora la battaglia cambia di piano ma non si semplifica. «Invece di spingere per venire da noi – ha subito chiarito Luis Durnwalder, presidente della provincia di Bolzano e governatore di turno del Trentino Alto Adige – chiedano l'autonomia a Zaia e a Galan che, fino a prova contraria, sono molto vicini alla Lega e al Pdl, e quindi al governo».
Immediata la reazione dei bellunesi, che ieri hanno ricordato il «valore relativo» dei pareri (obbligatori ma non vincolanti) della regione di destinazione, ma l'eventuale convivenza non sarà facile. Con tutti i suoi vantaggi (i comuni trentini hanno entrate medie superiori dell'80-85% rispetto a quelli veneti, come ha ricordato ieri la Cgia di Mestre), lo Statuto speciale è un club d'élite, ed entrarci è complicato.
Più facile passare da una regione all'altra nei territori "normali", come testimonia il fatto che la Valmarecchia offre finora l'unico trasloco (dalle Marche all'Emilia Romagna) arrivato a destinazione. Un buon viatico per l'inquieto comune di Spinazzola, che da Bari è passato alla nuova provincia Bat (Barletta, Andria e Trani) e nei giorni scorsi ha minacciato di salutare la Puglia per andare in Basilicata contro la decisione della giunta Vendola di chiudere l'ospedale locale.
LA PROCEDURA
La Costituzione
L'articolo 132 della Costituzione (secondo comma) consente che province e comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una regione e aggregati a un'altra. Serve l'approvazione della maggioranza delle popolazioni della provincia o delle province interessate e del comune o dei comuni interessati, espressa in un referendum. E l'approvazione di una legge, sentiti i consigli regionali.
La legge attuativa
In base alla legge 352 del 1970, applicativa del dettato costituzionale, se il referendum è approvato, il ministro dell'Interno, entro 60 giorni dalla pubblicazione nella «Gazzetta ufficiale» del risultato del voto, presenta al Parlamento il disegno di legge per lo spostamento delle province o dei comuni.
Se la proposta non è approvata, non può essere rinnovata prima che siano trascorsi cinque anni.
La semplificazione arrivata dalla Consulta
Con la sentenza 334 del 2004, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 42 della legge 352, giudicando troppo complessa la procedura prevista per indire i referendum finalizzati ai distacchi territoriali. Di fatto, questa pronuncia ha semplificato e sbloccato i referendum.
 

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