martedì 11 gennaio 2011

Italia, 11 gennaio 2011: il Governo brianzolo indica quello che vuole

1. Comune di Napoli, Varriale (Pdl): Dichiarare subito il dissesto
2. Veneto, la Caritas chiude le porte agli immigrati
3. Professori friulani, Fioroni apre alla Lega: "Idea da valutare"
4. Mantova: Borsa Merci, nuova sede strategica
5. Carburanti ancora su
6. Marchionne merita un altro Pd
7. Fiat: a Melfi 7-8/2 operai in cig
8. Bologna: un neonato e' morto per il freddo




Napoli, 11 gen (Il Velino/Velino Campania) - La situazione dei conti del Comune di Napoli anima il dibattito politico. Se le banche private non intendono più concedere mutui, si comincia ad ipotizzare il crac finanziario. "Il centrosinistra farebbe bene ad agire nell'interesse della città, dichiarando il dissesto del bilancio comunale per avviare subito un processo di risanamento che si prefigura lungo e doloroso - ha detto il consigliere comunale Salvatore Varriale del Pdl -. Il no degli istituti di credito a nuovi finanziamenti per il Comune di Napoli era stato ampiamente previsto dal sottoscritto in tutte le discussioni consiliari sulla manovra di bilancio degli ultimi quattro anni. Nonostante l'assessore Saggese rimpalli le responsabilità al suo predecessore, Riccardo Realfonzo, la verità è che da almeno un decennio il Comune spende più di quanto ha a disposizione ed incassa meno di quanto previsto, con un debito strutturale quantificabile in non meno di duecento milioni di euro e con i gravissimi effetti che vengono ora alla luce".
Secondo Varriale "tra assunzioni nelle partecipate, nuove consulenze, finanziamenti a servizi senza copertura, si riproduce in Comune quanto accaduto in Regione, quando a pochi mesi dalle elezioni si è deciso di sforare scientificamente il patto di stabilità con spese folli di ogni genere per rafforzare i propri serbatoi di consenso clientelare ed avvelenare i pozzi per chi sarebbe arrivato dopo. Chi vincerà le elezioni in primavera – ha concluso Varriale - si vedrà consegnare un Comune insolvente e privo della credibilità necessaria ad ottenere credito bancario con il concreto rischio di dover dichiarare il dissesto di bilancio un attimo dopo essersi insediato".
(cp) 11 gen 2011 11:58

La Caritas chiude l’ospitalità agli stranieri. La notizia, raccontata dal Corriere della Sera, spiega un fenomeno di povertà che si sta allargando sempre di più.  “La situazione occupazionale è drammatica, dice il direttore della Caritas veneziana don Dino Pistolato, non si possono aprire i flussi migratori a centomila persone in questo momento, è una scelta pericolosa”.
Don Pistolato però ci tiene a precisare: non si tratta di una svolta protezionistica della Chiesa di fronte alla scelta del governo di accogliere centomila nuovi stranieri in Italia.  “E’ che bisogna imparare a guardare in faccia la realtà anche quando è brutta: accoglienza significa poter offrire lavoro, alloggi e dignità, non alimentare il panico mandando al massacro i nuovi arrivati e alimentando il razzismo”.
“E’ tornato lo spettro degli stranieri che rubano il lavoro, gli fa eco il coordinatore della commissione regionale per le migrazioni don Ferruccio Sant. L’integrazione in Veneto si è basata sul fatto che gli stranieri hanno sempre lavorato nelle fabbrichette dei paesini a stretto contatto con i veneti e hanno sempre vissuto accanto a loro con le loro famiglie”.
Fino a due anni fa certi lavori venivano fatti solo dagli stranieri, oggi non è più così: gli italiani sono disposti ad accettare qualunque lavoro pur di avere uno stipendio. Gli stranieri stessi hanno iniziato a chiedere alla Caritas proprio i soldi per spedire i famigliari a casa visto che, tra disoccupazione e cassaintegrazione, non riescono più ad affrontare affitti e costi scolastici per tutta la famiglia.
“E’ già iniziata una guerra al massacro tra poveri”, rincara don Pistolato. “L’integrazione è un argomento estremamente complesso e difficile, aggiunge il direttore dell’ufficio immigrazione delle chiese del Nordest monsignor Adriano Tessarollo,  ma il Vangelo ci chiede di accogliere lo straniero e ci impone di non trasformare differenze e diversità in contrasti sociali, perché il legame della fede è più forte del legame di sangue”.

L’ex ministro Giuseppe Fioroni, oggi deputato del Partito Democratico, non chiude la porta alla proposta di Pittoni di regionalizzare le graduatorie degli insegnanti: "È un’idea da valutare". Critica la responsabile scuola del Pd nazionale, Francesca Puglisi: "Dalla Lega solo demagogia"
TRIESTE - L’ex ministro Giuseppe Fioroni non chiude la porta alla proposta di Pittoni di regionalizzare le graduatorie degli insegnanti, ma sulla questione il Pd si spacca. «È un’idea da valutare – sostiene Fioroni, oggi deputato del Partito Democratico – e lo faremo nei prossimi giorni». Un’apertura alla proposta leghista? «Ci mancherebbe – afferma l’ex ministro – le idee vanno tutte approfondite».
In Regione il Pd vede al suo interno idee piuttosto distinte. Ma la responsabile scuola del Pd nazionale, Francesca Puglisi, è di parere diverso: «C’è solo tanta demagogia da parte della Lega, sul reclutamento dei docenti. Ma mentre parla di merito, vota il taglio di migliaia di cattedre e di posti di lavoro nella scuola, trovando negli insegnanti meridionali il capro espiatorio del precariato scolastico». Tra i punti definiti «preoccupanti» del ddl «c’è che non si comprende da chi sarebbero composte le commissioni di valutazione per l’accesso all’albo regionale». Anche in regione il Pd è diviso; Sergio Lupieri guarda con interesse alla proposta del senatore Pittoni.
«Non mi sento di bocciarla, concettualmente ci sono buoni passaggi che vanno verificati. Mi sembra comunque un proposta innovativa e di buon senso» aggiunge Lupieri, che conferma come «a livello nazionale le prime valutazione sono state incoraggianti. La proposta non andrebbe contro i diritti dei cittadinanza e garantirebbe soluzioni ad alcune criticità, quali la grande immigrazione di insegnanti e le graduatorie senza fine». Il consigliere regionale considera «sbagliato fare demagogia. Il Pd ha una decina di proposte pronte sulla scuola, si tratta ora di mettere insieme le buone idee, indipendentemente da quale partito provengano».
Di segno decisamente opposto la posizione di Franco Codega, secondo cui «la presenza degli insegnanti meridionali, anche se fosse significativa, non sembra essere poi così deleteria se è vero, come è vero, che in tutte le rilevazioni nazionali e internazionali le nostre scuole risultano essere tra le migliori d’Italia e d’E uropa». Per l’esponente del Pd «sarebbe ora di smetterla di creare problemi che agitano la scuola di oggi, come il taglio dei dirigenti scolastici, 27 nella sola nostra regione». Il problema di una riformulazione delle modalità di reclutamento degli insegnanti, secondo Codega, «esiste, ma non è la sola logica localistica che ci porta nella direzione giusta».
Concetto sostanzialmente condiviso anche dal segretario regionale della Cisl, Giovanni Fania, secondo cui «i problemi della scuola sono altri: un corpo docente tra i più anziani d’Europa, il precariato giovanile, strutture inadeguate, l’abbandono scolastico. Se il senatore Pittoni vuole confrontarsi con noi su queste cose, siamo aperti al dialogo. Non ci interessano invece gli spot elettorali: non è con le graduatorie regionali che si risolvono le criticità».
Roberto Urizio
(11 gennaio 2011)

Vicino all'autostrada: con tecnologie avanzate, ospita consorzi Dop e Igp
di Felicia Buonomo
MODENA. L'anno nuovo porta con sè spesso dei cambiamenti. Nel suo ambito, anche il sistema economico modenese cerca di dare il proprio contributo, nella speranza che questo si traduca in rinnovata fiducia. Ed è così che il sistema camerale modenese e le istituzioni hanno deciso di investire nella nuova sede della Borsa Merci che da via Canaletto passa in viale Virgilio, zona Fiera. Coniugando infrastrutture e informatica, dunque, a tagliare il nastro è stato il presidente della Camera di Commercio, Maurizio Torreggiani, insieme al primo cittadino modenese, Giorgio Pighi (il senatore Paolo Scarpa Bonazza Buora, presidente della 9º commissione permanente agricoltura e produzione agroalimentare, non ha potuto essere presente). «Oggi è solo un primo passo - afferma con orgoglio Torreggiani - le contrattazioni sono già iniziate e da marzo crediamo di potere essere a pieno regime con tutti i consorzi». Nella nuova Borsa Merci, infatti, avranno sede anche i consorzi Dop e Igp. «Con questa nuova collocazione - prosegue il presidente Torreggiani - crediamo fermamente che la Borsa Merci possa diventare una colonna portante dello sviluppo del nostro territorio. Via Virgilio è una localizzazione perfetta, tutti conoscono questa zona, è un posto comodo soprattutto per l'uscita dell'autostrada, gli ampi parcheggi e le dotazioni infrastrutturali e tecnologiche che abbiamo messo a disposizione degli operatori». Nei locali stracolmi di persone (erano all'incirca 200) ha preso la parola il sindaco Pighi, il quale plaude alla scelta (che lui chiama "trovata") di rendere la «Borsa Merci - dice - anche sede dei consorzi. È una risposta di marketing territoriale intelligente. Guardando all'allargamento del territorio, allo Scalo merci, alla convergenza degli assi stradali, abbiamo dato vita insieme a un progetto di risposta alla crisi economica». Una crisi ancora presente, ma che lascia ben sperare per l'anno appena iniziato. «Modena rappresenta nel settore agroindustriale il 14% dell'intera economia agroindustriale regionale - ricorda Torreggiani - Già nel 2010 questo settore ha permesso la tenuta del Pil modenese. Per il 2011 mi preoccupa la sfiducia. La positività riscontrata nella ripresa economica nel Modenese è frutto soprattutto ed essenzialmente 11 gennaio 2011

11/01/2011 - 14:06
Continuano gli aumenti dei prezzi dei carburanti. Oggi la media nazionale dei prezzi della benzina in modalità servito, secondo le rilevazioni di Quotidiano Energia, va da 1,477 euro al litro degli impianti Esso a 1,484 dei distributori Tamoil (no-logo a 1,410 euro/litro); per il diesel si va da 1,360 euro al litro riscontrato alla Esso a 1,366 rilevato in media negli impianti Tamoil (no-logo a 1,286). Per i Consumatori, si tratta di aumenti "del tutto ingiustificati".
Commentano Federconsumatori e Adusbef: "I nuovi ritocchi all'insù hanno fatto salire il prezzo della benzina a 1,47-1,48 euro al litro (anche se ci risulta che in alcune zone tale prezzo raggiunga anche 1,55 euro al litro). I prezzi della benzina a tali livelli corrispondono a quelli praticati a maggio 2008, quando il petrolio, però, si attestava a 127 dollari al barile che, corretti esattamente considerando la rivalutazione del dollaro, corrisponderebbero a 109-110 dollari al barile. Oggi, invece, il petrolio è quotato 89,21 dollari al barile, vale a dire il 18% in meno. E allora la domanda sorge spontanea: perché la benzina viene venduta allo stesso prezzo di allora?".
Le due associazioni sottolineano che nel 2010 gli automobilisti hanno speso 4,81 miliardi di euro in più per i carburanti, di cui 528 milioni in più per l'erario per via dell'aumento della tassazione. In media, nel corso del 2010 vi è stato un sovrapprezzo di 9 centesimi, pari a ricadute di 108 euro per costi diretti e 90 per costi indiretti, per un totale di 198 euro annui.
"Una situazione simile non è più tollerabile - commentano Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti, presidenti di Federconsumatori e Adusbef - È ora che il Governo si decida a intervenire mettendo in campo ogni misura o provvedimento che possa influire positivamente su questa urgente questione". Fra questi, la Commissione istituzionale sulla doppia velocità dei prezzi, la razionalizzazione della rete e l'apertura alla vendita attraverso la grande distribuzione, il blocco anche quindicinale degli aumenti.
2011 - redattore: BS

Sfide. Di Peppino Caldarola
Un partito moderno non può sostituirsi al sindacato ma non può neppure fingere di non vedere che ciò che accade a Mirafiori ci parla dell’Italia e che la durezza di Marchionne nasce anche dal fatto che il suo progetto è calato in un paese che ha perso la cultura industriale perché ha perso cultura politica.
Fra poco più di una settimana, il 13 e 14 gennaio, si svolgerà il referendum a Mirafiori. La Fiom lo considera un appuntamento segnato dal ricatto e dalla paura e chiede che si possano svolgere assemblee di lavoratori per discutere l’accordo. L’azienda viceversa ha fretta e ha messo in discussione addirittura la sopravvivenza della fabbrica nel caso in cui prevalessero i “no”. La sinistra si presenta a questa prova divisa. Il protagonismo di Sergio Marchionne rischia di travolgere il fragile compromesso che aveva compattato lo schieramento progressista in questi sedici anni di egemonia berlusconiana. Il pugno di ferro del capo della Fiat interrompe oltre un decennio di divagazioni sovrastrutturali e costringe la sinistra a fare i conti con problemi identitari e programmatici a lungo elusi. In primo luogo riproponendo due capisaldi delle antiche elaborazioni della sinistra. Il ruolo della grande fabbrica nell’economia italiana e la posizione verso la classe operaia.
Nel secondo dopoguerra il movimento operaio, pur mostrandosi attento alla piccola impresa e al ceto medio, non aveva mai smarrito la consapevolezza che un’economia moderna non potesse fare a meno della grande impresa. Prima della degenerazione clientelare dell’intervento pubblico anche l’industria di stato si era misurata sui grandi progetti industriali. La centralità operaia, prima ancora di essere una scelta ideologica, rappresentava la presa d’atto che i lavoratori manuali impegnati nelle grandi imprese tecnologicamente agguerrite fossero un presidio di modernità. Anche per questo i temi della sindacalizzazione e del potere in fabbrica rappresentavano un aspetto rilevante del dibattito pubblico. Non è stata una storia lineare. Abbiamo conosciuto le suggestioni operaiste, sperimentato nuove forme di democrazia sindacale, sono state combattute grandi battaglie contro l’estremismo e il terrorismo, è stata frettolosamente archiviata la stagione della sconfitta dopo la marcia dei quarantamila.
La grande fabbrica restava comunque il fulcro dell’Italia produttiva. Per ragioni diverse, che non possiamo neppure riassumere in queste righe, le successive stagioni politiche hanno proposto altri modelli di produzione, di consumo e di democrazia. Fabbriche e operai sono passati in seconda o terza fila. I partiti politici si sono fatti evanescenti, i sindacati hanno difeso l’esistente, il progetto-Italia ha perso colpi nei settori produttivi che ne avevano sancito la storia industriale. Anche la narrazione della storia italiana veniva deformata. Una maggioranza di destra si coagulava come se si fosse appena liberata dalla cappa dello stato, del sindacalismo, del meridionalismo, della democrazia rappresentativa. L’idea liberale si faceva eltsiniana ignorando le caratteristiche occidentali della crisi del paese. Marchionne arriva a questo punto. Rimette il sistema Fiat al centro dell’universo produttivo e di quello politico-culturale ma anche lui si vuole avvantaggiarsi di una narrazione di destra della crisi italiana chiedendo al paese di liberarsi dalle pastoie del sindacalismo e della rappresentanza.
Non c’è dubbio che il leader della Fiat coglie alcune verità di fondo. Marchionne impone alla politica e alla società di ragionare su un possibile futuro industriale che non faccia a meno della grande fabbrica e della specializzazione italiana sui motori e sull’auto e chiede che questo sforzo nazionale si faccia nelle stesse condizioni di mercato dei suoi più agguerriti concorrenti. La verità di Marchionne è tremendamente moderna e spazza via le futili discussioni degli anni dell’ottimismo berlusconiano e tremontiano anche se si avvantaggia di quel lascito culturale rappresentato dalla elusione delle responsabilità della crisi del paese. Anche Marchionne ragiona come se si trovasse a operare non in un moderno e democratico paese occidentale ma in una fragile democrazia dell’Est.
La modernità di Marchionne rischia così di trasformarsi in un modello politico-culturale degli albori del movimento operaio e della lotta di classe. O se volete, più semplicemente del primo capitalismo. L’idea cioè che esista una incompatibilità fra il lavoro di fabbrica e la democrazia. Il pieno controllo del lavoro è l’unica condizione per la sfida produttiva e per l’uso intensivo delle nuove tecnologie che non sopportano alcuna deroga legata al protagonismo operaio, sia quello che guarda alla tutela di migliori condizioni di lavoro sia quello che pensa a tematiche di potere. La fabbrica evita la contaminazione democratica e resta affidata a un patto leonino che lega l’operaio alla sua singola azienda e al suo management. La verità è che si stanno capovolgendo le premesse da cui eravamo partiti. Siamo entrati nel nuovo secolo con il carico di problemi di una società avanzata e ne usciamo con le stesse ricette dell’Est europeo. Una fabbrica a così bassa densità democratica si affaccia così su una società socialmente disgregata retta da un sistema politico neo-feudale. Difficile immaginare che questo possa essere il viatico alla modernità come ci viene proposto nelle interpretazioni entusiastiche della svolta di Marchionne.
La sinistra qui rivela i suoi strutturali punti deboli. D’improvviso è costretta a ragionare su un modello industriale che azzera tutta la sua discussione pubblica di questi anni. Deve fare i conti con una grande sfida produttiva e con modelli di rappresentanza che erano sfuggiti alla sua cura e persino alla sua visione. Quando si propone nella stessa stagione politica di tornare alle gabbie salariali, di abolire il contratto nazionale di lavoro, di escludere dalla contrattazione il contraente minoritario si perdono di vista punti fondamentali del proprio radicamento sociale. E’ l’idea abnorme di una società senza conflitti che viene proposta come modello in un mondo che ne conosce sempre più nuovi. La responsabilità della Fiom è nella sua mancanza di immaginazione nell’ elaborare una strategia nuova di fronte al tentativo più radicale di espellerla dalla fabbrica. La responsabilità del partito di sinistra, o di centro-sinistra, è di non cogliere gli elementi paleo-capitalistici nelle pretese del nuovo gruppo dirigente della Fiat. Il paradosso di questa fase sta proprio nel fatto che la segreteria di Bersani che coraggiosamente e tempestivamente aveva messo nel suo temario la questione del lavoro oggi si trovi a dover fronteggiare l’accerchiamento dei marchionnisti e dei pan-sindacalisti.
Non sappiamo come gli operai valuteranno l’accordo anche se appare probabile, ma non scontato, che la paura della fuga della Fiat dall’Italia li potrebbe spingere verso il sì. Sappiamo che un minuto dopo le questioni si presenteranno ancora nella loro ruvida pesantezza. Fin dove vorrà spingersi Marchionne per considerare normalizzata la sua fabbrica? E quali territori dovrà esplorare il conflitto operaio una volta che una parte importante del sindacato si troverà fuori dalla rappresentanza pur non essendo fuori dalla fabbrica? Un partito moderno non può sostituirsi al sindacato ma non può neppure fingere di non vedere che ciò che accade a Mirafiori ci parla dell’Italia e che la durezza di Marchionne nasce anche dalla cruda consapevolezza che il suo progetto è calato in un paese che ha perso la cultura industriale perché ha perso cultura politica. Finalmente possiamo parlare di cose serie. Marchionne e la Fiom nella loro unilateralità hanno messo il dito nella piaga.
mercoledì, 5 gennaio 2011

(ANSA) - POTENZA, 11 GEN - La produzione della ''Punto evo'' nello stabilimento di Melfi (Potenza) della Fiat si fermera' lunedi' 7 e martedi' 8 febbraio e gli operai saranno collocati in cassa integrazione ordinaria: lo si e' appreso a Potenza da fonti sindacali. La decisione di sospendere la produzione per due giorni e' stata presa dall'azienda per adeguare il flusso in uscita dalle auto alle richieste del mercato.

BOLOGNA, 11 GENNAIO - Aveva solo venti giorni di vita il piccolo David Berghi, morto nella notte del 5 gennaio all’ospedale Sant’Orsola a causa di una crisi respiratoria generata dalle condizioni di disagio con cui era costretto con la famiglia ad affrontare il freddo.
Dopo essere stato soccorso in Piazza Maggiore, il piccolo è stato ricoverato con il fratellino gemello e la sorella più grande, ora in ospedale. I bambini appartengono ad una coppia italiana disagiata che vive di stenti e non possiede una fissa dimora, costretta per lo più a cercare riparo sotto i ponti e talvolta nelle aule della Sala Borsa. L’accaduto ha suscitato dolore e sdegno nella città per cui sembra inammissibile che una famiglia in tali condizioni di bisogno sia stata lasciata sola.
Pare tuttavia che la signora Berghi abbia sempre rifiutato gli aiuti offerti dai servizi sociali dal comune di Bologna, e che l’affido dei figli le era stato tolto precedentemente. Il marito Sergio aveva difatti intenzione di presentare domanda di sussidio presso il comune ma la paura che potesse essere separato dai bambini l’ha frenato.
Duro il commento del direttore della Caritas Diocesana: “A questa città manca un padre di famiglia”. Non si tratta dunque solo di carenza dei servizi sociali, ma di pesanti lacune che gravano sulla città a livello spirituale.
Ilaria de Lillo

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