martedì 7 giugno 2011

Istat: Rapporto 2008-2010. Le Conclusioni.


Per i masochisti, di seguito alla Conclusioni c’e’ l’estrapolazione delle risultanze specifiche sul Mezzogiorno. Le frasi riportate non sono state modificate, sono originali. Ne risulta un lento, crudele dissanguamento, prelevato a gocce dal governo italiano. Una lunga, storica donazione di sangue a beneficio del vecchio, puzzolente, sangue padano.




Conclusioni
Il Rapporto di quest’anno mostra che l’Italia ha pagato, a causa della recessione, un prezzo elevato in termini di produzione e di occupazione, ma ne ha anche limitato l’impatto sociale ed ha evitato crisi sistemiche analoghe a quelle di altri paesi. La ricchezza di cui dispongono le famiglie, un tessuto produttivo robusto e flessibile, l’ampio ricorso alla cassa integrazione, il rigore nella gestione del bilancio pubblico, le reti di aiuto informale sono gli elementi che spiegano perché la caduta del reddito prodotto, la più forte tra i grandi paesi industrializzati, non si è trasformata in una crisi sociale di ampie dimensioni. Tuttavia, il sistema Italia appare vulnerabile, e più vulnerabile di qualche anno fa. Non a caso il tema della vulnerabilità caratterizzò anche il Rapporto sul 2005, scritto dopo la crisi del biennio 2002-2003 e prima dell’accelerazione economica che caratterizzò i due anni successivi. Se, però, alcuni aspetti della situazione attuale appaiono simili ad allora, è anche evidente che per fronteggiare le recenti difficoltà l’economia e la società italiana hanno eroso molte delle riserve disponibili.
Ad esempio, le famiglie hanno ridotto drasticamente il tasso di risparmio per sostenere il loro tenore di vita e i vincoli di finanza pubblica rendono minimi gli spazi di manovra della politica fiscale.
L’economia nazionale mostra evidenti difficoltà nella fase di ripresa, meno sostenuta di quella di paesi a noi vicini come Francia e Germania. Tale andamentosi spiega sia con una dinamica molto contenuta della domanda interna, frenata dalla riduzione dei redditi delle famiglie e dall’ampia capacità produttiva inutilizzata, sia con le difficoltà delle imprese italiane a competere sui mercati europei e sullo stesso mercato nazionale, cosicché l’aumento delle esportazioni viene più che compensato da quello delle importazioni.
Durante la recessione le imprese hanno cercato di rinnovarsi sul piano tecnologico e organizzativo, conservando gran parte del capitale umano disponibile, forse in attesa di tempi migliori. La metà delle imprese esportatrici ha già recuperato i livelli pre-crisi di fatturato sui mercati esteri. Una quota rilevante delle multinazionali italiane ha continuato a disegnare strategie di sviluppo. D’altra parte, emergono chiari segnali di ricomposizione interna del sistema delle imprese, con segmenti vincenti in forte ripresa e altri che stentano a recuperare: si tratta, in particolare, delle grandi imprese e di quelle che operano nei settori sui quali l’offerta straniera sta guadagnando quote di mercato interno. L’inflazione è in ripresa e la produttività del lavoro è ancora ferma sui livelli del 2000.
Il ritrovato dinamismo di importanti segmenti della manifattura, la vulnerabilità di vari comparti dell’industria, la troppo lenta evoluzione dei servizi di mercato, l’erosione del risparmio delle famiglie fanno emergere una prima conclusione: il tasso di crescita dell’economia italiana è del tutto insoddisfacente e anche i segnali di recupero congiunturale dei livelli di attività e della domanda di lavoro non sembrano sufficientemente forti e diffusi per riassorbire la disoccupazione e l’inattività, rilanciando redditi e consumi.
La seconda conclusione riguarda la maggiore vulnerabilità delle persone e delle famiglie. Se la disoccupazione è cresciuta relativamente meno che negli altri paesi, con la recessione si sono perse quasi 900 mila unità di lavoro a tempo pieno ed è aumentata l’area dell’inattività. L’occupazione sta ora crescendo prevalentemente nei servizi a più basso contenuto professionale, a fronte della riduzione del numero delle posizioni più qualificate. Ciò implica, a parità di altre condizioni, un sottoutilizzo del capitale umano, guadagni più bassi, minori prospettive di sviluppo.
I giovani e le donne hanno pagato in misura più elevata la crisi, con prospettive sempre più incerte di rientro sul mercato del lavoro, le quali ampliano ulteriormente
il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità. Una quota sempre più alta di giovani scivola, non solo nel Mezzogiorno, verso l’inattività prolungata, vissuta il più delle volte nella famiglia di origine, e verso bassi livelli di integrazione sociale, soprattutto per quelli appartenenti alle classi sociali meno agiate. Oltre il 40 per cento dei giovani stranieri abbandona prematuramente la scuola, alimentando un’area di emarginazione i cui costi non tarderanno a diventare evidenti.
Le donne vivono una inaccettabile esclusione dal mercato del lavoro. Per di più, il carico di lavoro familiare e di cura gravante su di loro rende più vulnerabile un sistema di “welfare familiare” già debole, nel quale esse hanno cercato di supplire alle carenze del sistema pubblico. Peraltro, le donne sono ancora troppo spesso costrette a uscire dal mercato del lavoro in occasione della nascita dei figli.
Ad essere investiti da una vulnerabilità crescente, insieme ai giovani e le donne, sono gli anziani. Povertà e deprivazione riguardano spesso le famiglie di ultrasessantacinquenni.
Inoltre, molti anziani con gravi limitazioni non sono aiutati né dalle reti informali, né dai servizi a pagamento, né dalle strutture pubbliche. La carenza di queste ultime produce così non solo un costo aggiuntivo per le famiglie, ma rischia di mettere in concorrenza la cura dei bambini con l’assistenza degli anziani, i cui bisogni crescono con l’allungarsi della vita.
I necessari interventi volti al controllo della finanza pubblica non devono andare a discapito della capacità dei Comuni di svolgere interventi socio-assistenziali.
Aggiungendosi alle tendenze ora ricordate per le reti informali di aiuto, ciò ridurrebbe la capacità di fronteggiare le nuove vulnerabilità sociali. Il rischio è più elevato nel Mezzogiorno, dove i livelli di assistenza risultano già nettamente inferiori a quelli del Nord, pur in presenza di bisogni maggiori.
La terza conclusione riguarda proprio il Mezzogiorno, il quale, invece di costituire una opportunità straordinaria per elevare il tasso di sviluppo dell’economia
italiana, presenta segni crescenti di vulnerabilità economica e sociale. Ciò richiede un’attenzione particolare da parte della politica, del mondo produttivo e della società, così da recuperare e rilanciare i segnali positivi che stavano emergendo prima della recessione, ad esempio sul piano imprenditoriale, e contenere fenomeni di migrazione e conseguente depauperamento del capitale umano disponibile.
Infine, nella prospettiva della Strategia Europa 2020 emerge come le vulnerabilità richiamate, unitamente ad alcuni ritardi storici del nostro Paese, stiano frenando il suo slancio verso gli obiettivi concordati a livello europeo. I progressi conseguiti in diversi campi, dalla riduzione dell’abbandono scolastico alla vitalità delle imprese high-growth prima della recessione, dal miglioramento dell’efficienza energetica al contenimento della deprivazione materiale, appaiono decisamente troppo lenti per un grande Paese come il nostro, soprattutto a confronto di quanto sta avvenendo in altre parti dell’Unione europea.
L’Italia ha bisogno di prendere coscienza dei propri problemi e dei propri punti di forza per mobilitare le tante risorse disponibili e accelerare il passo, in tutti i campi. Ha anche bisogno di utilizzare meglio l’informazione esistente per orientare le decisioni collettive e individuali. Ad esempio, il contrasto tra esigenze delle imprese di figure professionali particolari e scelte scolastiche che vanno nella direzione opposta può essere superato solo attraverso la diffusione dell’informazione necessaria. Analogo discorso vale per il sostegno alle imprese nell’identificare i mercati internazionali più dinamici e entrarvi nel modo migliore.
Talvolta, confrontando lo stile italiano nell’affrontare i problemi con quello di altre culture, si ha l’impressione che il nostro Paese non abbia una piena coscienza dell’importanza del fattore “tempo”, soprattutto in un mondo globalizzato popolato di nuovi attori, sempre più rapidi nel riempire gli spazi lasciati liberi da altri. Per le imprese entrare o meno su un mercato in un certo momento, realizzare rapidamente una certa innovazione o meno, può fare la differenza tra espandersi o chiudere. Non sembra che lo stesso senso di urgenza guidi altre decisioni, sia a livello collettivo, sia a livello individuale.
È ben nota la preferenza per decisioni dalle quali ci si attende risultati immediati rispetto a quelle i cui effetti positivi sono differiti negli anni. Ma come nel passato la “rincorsa all’euro” ha costituito un obiettivo condiviso di tutto il Paese, per il quale gli italiani sono stati anche pronti a pagare un prezzo in vista di benefici futuri, oggi la Strategia Europa 2020 può rappresentare l’occasione per strutturare in modo adeguato il dibattito pubblico su come rendere il Paese meno vulnerabile e più prospero. La modernizzazione del Paese passa anche per un modo nuovo di discutere obiettivi, strategie e soluzioni. Soprattutto in un sistema economico e sociale come quello italiano, caratterizzato da un elevato numero di operatori (imprese, pubbliche amministrazioni centrali e locali, istituzioni private), la coesione di intenti, la chiarezza degli obiettivi, la mobilitazione dell’opinione pubblica e della società civile sono condizioni necessarie, ancorché non sufficienti, per affrontare i nodi esistenti e moltiplicare gli effetti benefici di decisioni coordinate. Questo cambio di passo sarebbe il modo migliore per celebrare l’Unità d’Italia.
Tracciare nuove mappe, far emergere opportunità e rischi, valutare progressi e regressi, sostenere con informazioni affidabili la discussione democratica. Questo è il servizio che rendiamo, con orgoglio e onestà intellettuale, ai cittadini e alla istituzioni di questo Paese, nella convinzione che il suo futuro passi, ora più che mai, per decisioni difficili ma lungimiranti, da assumere al più presto, a tutti i livelli di responsabilità, sulla base di un quadro informativo ampio e condiviso.

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1. Tra il 2008 e il 2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila unità: in più della metà dei casi si tratta di persone residenti nel Mezzogiorno, cosicché in quest’area l’occupazione è tornata sui livelli dell’inizio del decennio. La contrazione ha riguardato anche il Nord (-1,9 per cento, pari a 228 mila unità in meno), mentre le regioni centrali sono passate sostanzialmente indenni attraverso la crisi.

2. Nonostante il diffuso ricorso alla Cig, la perdita di manodopera industriale (-404 mila unità tra 2008 e 2010) ha contribuito per i tre quarti alla caduta occupazionale totale. Il fenomeno ha assunto dimensioni di estrema gravità nel Mezzogiorno, con un ritmo di discesa doppio (-13,8 per cento) rispetto a quello del Centro-Nord (-6,9 per cento).

3. Nel 2010 era occupato circa un giovane su due nel Nord e meno di tre su dieci nel Mezzogiorno.

4. La caduta dell’occupazione è stata particolarmente significativa tra i giovani: nella quasi totalità dei casi si tratta di persone che vivono in famiglia con i propri genitori. Neanche l’istruzione più elevata ha protetto i giovani dagli effetti della recessione: infatti, il tasso di occupazione è diminuito sia per chi è in possesso di un basso titolo di studio (dal 38,8 al 36,0 per cento del 2010), sia per i diplomati (dal 45,6 al 43,9 per cento) e i laureati (dal 50,6 al 48,5 per cento).
Per i giovani si è ridotta la probabilità di passare da un lavoro atipico a uno standard:
ogni 100 giovani con contratto atipico nel primo trimestre 2009, solo 16 sono occupati stabilmente dopo un anno (10 in meno dell’anno precedente)…..
Un terzo dei Neet è disoccupato, un terzo è non disponibile a lavorare e un terzo fa parte della “zona grigia”: quindi, la grande maggioranza di questi giovani (con una punta dell’80 per cento tra i maschi del Mezzogiorno) mostra un interesse alla partecipazione al mercato del lavoro, perché disoccupati o inattivi disponibili a lavorare.
Poco più della metà dei Neet che vive con i genitori proviene dalla classe operaia, a fronte di percentuali del 30 per cento tra gli studenti e del 42 per cento tra gli
occupati.

5. A sperimentare le interruzioni forzate del rapporto di lavoro sono soprattutto le giovani generazioni (il 13,1 per cento tra le madri nate dopo il 1973) e le donne residenti nel Mezzogiorno, per le quali più frequentemente le interruzionisi trasformano in uscite prolungate dal mercato del lavoro e la quasi totalità di quelle legate alla nascita di un figlio può ricondursi alle dimissioni forzate.

6. I profili familiari e territoriali che caratterizzano le famiglie deprivate sono del tutto simili a quelli rilevati negli anni precedenti: famiglie numerose, con tre o più figli, abitazione in affitto, residenza nel Mezzogiorno.

7. Se il Nord-est spicca per una rete di aiuto informale più diffusa e attiva, il Mezzogiorno appare particolarmente penalizzato da una rete più esigua – con meno care giver e meno famiglie aiutate – pur a fronte di bisogni derivantida una povertà materiale più diffusa e da peggiori condizioni di salute della popolazione anziana.

8. (….) le poche madri lavoratrici del Mezzogiorno si trovano a dover ricorrere ad aiuti a pagamento più delle donne del Nord a causa della limitata disponibilità di servizi pubblici, di un minore aiuto da parte della rete informale e della necessità di attivarsi verso anziani in peggiori condizioni di salute rispetto al resto del Paese. Oltre agli aiuti per la cura e l’assistenza, il 12 per cento delle famiglie con bambini
riceve aiuti di tipo economico, con un significativo aumento rispetto al 1998 (quando era il 5,5 per cento). Le famiglie con bambini che possono contare su un sostegno economico sono più numerose nel Nord-est (14,4 per cento), mentre nel Mezzogiorno si attestano al 10,2 per cento, il valore più basso del Paese, pur essendo questa la zona con il maggior numero di bambini in condizione di povertà.

9. Tra i bisognosi di assistenza, oltre ai bambini, vi è un numero elevato di persone
gravemente o parzialmente limitate nell’autonomia personale che non sono raggiunte da alcun tipo di aiuto e non sono adeguatamente sostenute in casa: si tratta di circa due milioni di individui, soprattutto anziani, che non trovano adeguata
protezione all’interno della famiglia perché vivono soli o con altre persone con problemi di salute. Questo segmento di popolazione presenta anche condizioni economiche mediamente più svantaggiate, soprattutto nel Mezzogiorno. Il Nord-est è la zona in cui le famiglie di anziani sono aiutate di più, soprattutto quelle con persone in gravi condizioni (55,8 per cento), mentre il Mezzogiorno è quella dove le famiglie di anziani in gravi condizioni sono aiutate meno (46,9 per cento), benché le condizioni di salute degli anziani siano comparativamente peggiori.

10. La presenza di forme miste di aiuto per la cura e l’assistenza (pubblico, privato,
informale) è più alta nel Nord-est dove è maggiore l’aiuto agli anziani, mentre nel Mezzogiorno il carico delle situazioni difficili è più frequentemente appannaggio esclusivo della rete informale. Dove i servizi pubblici sono in crescita e le condizioni
economiche della popolazione consentono il ricorso ai servizi privati, come nel Nord-est, la rete informale (in particolare le donne) riesce maggiormente a contenere i carichi del lavoro di cura, ritraendosi da quelli più onerosi, ma garantendo la vicinanza affettiva attraverso la compagnia e l’accompagnamento. Al contrario, nelle aree in cui gli aiuti pubblici sono meno diffusi, come avviene nel Mezzogiorno, la rete informale è schiacciata sotto il peso delle esigenze degli anziani e si fa maggiormente carico di aiuti sanitari e di assistenza, raggiungendo comunque
una quota più contenuta di famiglie in difficoltà.

11. I cittadini che risiedono al Sud ricevono dai Comuni circa un terzo delle risorse erogate nel Nord-est sotto forma di interventi e servizi sociali (si va da un minimo di 30 euro in Calabria a un massimo di 280 euro nella provincia autonoma di Trento). Nelle regioni del Sud non solo si registrano i valori pro capite più bassi, ma anche la minore compartecipazione alla spesa da parte degli utenti e del Sistema sanitario nazionale.

12. Nel 2008 per una persona disabile residente in Italia la spesa media per assistenza è stata di 2.500 euro, oscillando dai 658 euro del Sud ai 5.075 del Nord-est; per l’assistenza agli anziani si va dai 59 euro di spesa media pro capite al Sud ai 165 euro nel Nord-est e per le famiglie con figli l’impegno dei Comuni varia dai 47 euro pro capite del Sud ai 165 del Nord-est. Nel 2009 la quota di bambini che si sono avvalsi di un servizio socio-educativo pubblico è del 13,6 per cento, ma mentre in alcune regioni (Emilia-Romagna, Umbria e Valle d’Aosta) si raggiunge quasi il 30 per
cento dei bambini fra 0 e 2 anni, quasi tutte quelle del Mezzogiorno presentano percentuali inferiori al 10 per cento.

13. Inoltre, la prima fase del federalismo municipale, prevista dal 2012-2013, dovrebbe procedere alla soppressione di alcuni trasferimenti ai Comuni a fronte della devoluzione di alcuni tributi. Nel Mezzogiorno, dove il welfare locale risulta finanziato in misura maggiore dai trasferimenti statali, le modifiche prefigurate – in assenza di interventi perequativi – potrebbero tradursi in un contenimento delle risorse impiegate nel settore dell’assistenza sociale. Alla sofferenza delle reti di aiuto informale, dunque, rischia di aggiungersi quella delle politiche sociali, con il possibile aumento, in un contesto di forti differenziali territoriali, di bisogni non soddisfatti provenienti dai segmenti di popolazione più vulnerabile.

14. (…) se nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è pari al 47,8 per cento, nel Nord e nel Centro si colloca su livelli prossimi a quello medio europeo (rispettivamente, 69,2 e 65,7 per cento), con divari più accentuati per la componente femminile: in diverse regioni meridionali la quota delle donne occupate è circa la metà di quella registrata in quelle settentrionali con le migliori performance.
 

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