martedì 23 novembre 2010

Ecco perché l'Italia non è l'Irlanda


di Francesco Forte
23 Novembre 2010
Il fatto che la comunità internazionale debba andare in soccorso dell’Irlanda, sino a poco tempo fa dipinta come un autentico modello di economia di mercato liberale che noi avremmo dovuto imitare, suscita sorpresa e sconcerto. E’ ciò una dimostrazione del fatto che il sistema di economia di mercato, ispirato a principi liberali non è un buon sistema economico? O vi è una incompatibilità fra l’euro e l’economia di mercato per gli stati di piccola dimensione come Grecia, Irlanda e Portogallo?

L’Irlanda, in effetti non è la Grecia. Il Pil pro capite Irlandese era – prima della crisi - di ben 59 mila dollari contro i 28 mila della Grecia, che sono meno della metà e contro 21 mila del Portogallo che sono il 35%. E l’Irlanda era, prima della crisi, anche lo stato dell’Unione europea e dell’area euro con il più alto Pil pro capite. Infatti la Svezia pre crisi aveva un Pil pro capite di 50 mila dollari. L’Olanda di 47 mila,il Regno Unito di 45 mila, l’Austria di 44 mila, la Francia di 42 mila, la Germania di 40 mila, l’Italia di 36 mila. E l’aiuto all’Irlanda è di 90 miliardi di euro, per uno stato di 4,5 milioni di anime, con 180 miliardi di euro di Pil, con un rapporto fra prestito internazionale e Pil pari al 50% e un aiuto pro capite di 20 mila euro. L’aiuto per la Grecia è stato di 110 miliardi di euro, per uno stato con 12 milioni di abitanti e un Pil di 230.

In rapporto al Pil l’aiuto per la Grecia è il 48%, ma pro capite di 9 mila euro. Un po’ meno della metà. Il che fa una certa impressione, dal punto di vista distributivo.

Abbiamo aiutato il povero con un prestito pro capite pari a metà di quello accordato al ricco, che ha un reddito pro capite di circa tre volte tanto. Ma la ragione c’è. E sta nel fatto che nel caso dell’Irlanda l’aiuto serve per il 55% per un intervento a favore delle banche irlandesi, che hanno bisogno di altri 50 miliardi, oltre a quelli che ha già erogato loro il governo irlandese, per evitare il dissesto.

Il governo irlandese ha un deficit di bilancio del 30% del suo Pil, che fa salire il suo debito pubblico verso il 100% del Pil, in quanto si è impegnato nelle banche in crisi, nazionalizzandone una e comprandone una e acquistando quote di minoranza di altre due ed ha garantito tutte quante. Ecco così che la sua situazione è precaria, per colpa della crisi bancaria, non per la crisi della sua finanza pubblica, sin qui basata su basse imposte, basse spese, bilanci pubblici in quasi pareggio, modesto rapporto fra debito pubblico e Pil.

Il governo di Dublino ha seguito, per la finanza pubblica, i principi macro economici liberali, ma ha lasciato mano libera alle sue banche, che hanno prestato soldi senza averli ai consumatori per mutui immobiliari, giocando sul rialzo del valore degli immobili anziché sulla capacità dei debitori di pagare i prestiti. Forse il governo irlandese è stato catturato dalle banche, forse non ha capito che non si possono fare gli investimenti senza risparmio, fatto sta che in rapporto alle banche ha violato i canoni elementari dell’economia di mercato. Esse comportano regole per il sistema bancario, che impediscono di erogare credito in modo spensierato, generando insolvenze che tradiscono la buona fede dei depositanti, degli azionisti e dei creditori delle banche medesime.

C’è anche una teoria liberista dell’economia di mercato che sostiene che essa può autoregolarsi, senza bisogno che lo stato ponga delle regole: ma tale teoria implica che chi sbaglia paga, ossia che le banche che, confidando nella ascesa dei valori immobiliari, prestano soldi senza averli a persone che non sono in grado di restituire i prestiti, debbano fallire quando si trovano CON perdite eccessive, a causa dei calcoli sbagliati. Invece le grandi banche europee  ed autorevoli economisti che sostengono di essere liberali, hanno premuto perché il governo irlandese intervenisse, statizzando queste banche. Il principio per cui le imprese si tengono i profitti e passano le perdite allo stato non ha nulla di liberalista.

Ma bisogna tenere presente che le banche del Regno Unito hanno duecento miliardi di euro di esposizioni verso quelle irlandesi, le banche tedesche sono esposte per 180 miliardi e quelle francesi per una cifra sopra i 100 miliardi. La comunità bancaria internazionale perciò ha bisogno che le banche irlandesi non falliscano e che gli stati dell’euro zona, assieme al Fondo Monetario Internazionale e al governo inglese diano un massiccio aiuto finanziario a questo stato. Occorre, a questo punto, osservare che lo sviluppo economico irlandese, negli anni passati, ha avuto l’aspetto di un grande miracolo economico, ma era basato, in parte su fattori effimeri, come l’espansione  della domanda di immobili da parte dei cittadini tramite il credito facile, che ha generato un boom dell’industria edilizia, assieme alla quintuplicazione dei prezzi per metro quadro degli edifici.

L’industria edilizia è diventata il 10 per cento del Pil irlandese, che è cresciuto di oltre il 6 per cento annuo. A un certo punto, i prezzi delle case hanno cominciato a scendere e in poco tempo si sono dimezzati. E le banche, che avevano anche largheggiato nei prestiti sulle carte di credito si sono trovate in situazione pre fallimentare. Purtroppo il ricatto del crack bancario nei confronti dei paesi dell’euro ci ha costretti a intervenire.

Ma logica vorrebbe che anche le banche si assumessero la loro parte di fardello, cosa che temo non accada perché esse sono troppo potenti nella comunità internazionale. Ciò detto, sarebbe tuttavia grossolanamente errato sostenere che l’economia irlandese ha avuto la prodigiosa crescita degli ultimi quindici anni solo con il boom edilizio. In realtà la crescita del suo Pil, quando essa è entrata nell’Unione monetaria europea nel 1998, era già dal 1990 del 6% annuo. Essa era sospinta dagli investimenti industriali esteri, attirati dalla tassazione dei profitti delle imprese al 12,5%.

Considerata la favorevole ubicazione geografica sul mare, della repubblica Irlandese, la sua vicinanza all’Inghilterra e il fatto che essa ha la stessa lingua e le stesse regole giuridiche del Regno Unito, la tassazione al 12,5 ne ha fatto una ubicazione ideale per le multinazionali. Questo livello di tassazione ha comportato una distorsione nella concorrenza a favore delle multinazionali anglo americane in quanto è difficile sostenere che i benefici delle spese pubbliche irlandesi a favore delle imprese siano appena il 12% dei loro utili. L’Irlanda ha avuto, così, un boom industriale. Ma ha anche una situazione precaria nella bilancia dei pagamenti con l’estero, in quanto le uscite dall’Irlanda per interessi e rimpatri di profitti delle imprese estere sono il 4,5 % del Pil irlandese.

L’Irlanda quindi è obbligata ad avere un surplus del commercio estero di livello corrispondente, se vuole pareggiare i suoi conti con l'estero. Ciò però non le riesce. Quindi ha un deficit strutturale di bilancia corrente dei pagamenti dello 1,5% del Pil.
L’economia di mercato comporta di avere basse imposte per le imprese. Ma il loro livello non va abbassato in modo da creare un eccesso di investimenti esteri fatti a debito. Anche qui occorre tenere presente la regola aurea che l’investimento ha bisogno di una solida base di risparmio. E le imposte, come prezzo dei servizi pubblici, debbono essere basse, ma coprire i costi di tali servizi. L’Irlanda si è cacciata nei guai perché ha trascurato alcuni principi elementari del sistema di mercato. Ma con le basse imposte sulle imprese ha comunque realizzato una crescita economica spettacolare.

L’Italia tassa le imprese con un carico fiscale che fra imposta sul reddito e Irap supera il 50%. E il Pil italiano cresce dello 1 per cento annuo. L’Irlanda con tutti gli errori che ha commesso ci insegna che basse imposte sulle imprese generano crescita economica. E possono trasformare un paese sottosviluppato, quale essa era negli anni ‘80, in un paese ricco.
Commento, di grecanico.
Ecco perché l'Italia non è l'Irlanda
Rapportare i dati pro capite tra stati di piccola dimensione come Grecia, Irlanda e Portogallo, e’ corretto. Utilizzare i pro capite di codesti stati per dipingerne il quadro prospettico, e’ altrettanto corretto. Non capisco il parallelismo tra Irlanda – e Grecia sullo sfondo – e l’Italia. Il debito pubblico italiano ha altra radice, rispetto a quello Irlandese, ed ancor di piu’, da quello greco. Altra dimensione.
Se l’articolo, come sembra, e’ una difesa del liberismo, messo in pericolo dall’avidita’ delle banche, o dalla loro inefficienza, va bene. Grazie per la lezione. Ma – scusi – lei dove lo ha visto realizzato il liberalismo. Sino ad ora.
In fondo non ho capito cosa vuol dimostrare il Prof. Forte. Mi scusi, l’inizio della storia del caso Irlanda me lo ricordo, ero nell’Europa dell’Est. Politici, economisti e gente comune rimasero, in quesi paesi, favorevolmente impressionati dall’esplosione del pil irlandese. Andavano asserendo che anche loro avevano la capacita’ e la volonta’ di fare come quelli, perche’ l’incremento del pil irlandese era superiore a quello dei beceri capitalisti americani. Insomma le cifre erano belle. Nessuno si curo’ di considerare che i valori assoluti comparati erano improponibilmente incomparabili. Sogni fiabeschi.
Per una struttura economica, come quella irlandese, era incredibilmente facile migliorare, persino con numeri sbalorditivi. Erano allo start up, per farla breve, non c’erano che mandrie e campi di patate.
Ricordo anche che in Italia qualcuno ci casco’: erano – credo – quelli che amavano l’economia digitale dei call center. Bassi costi fissi, bassissimi costi variabili, niente costi sociali. Agevolazioni a gogo’: viva l’imprenditoria facile e per tutti i furbetti. Le banche irlandesi non ci hanno capito granche’, come moltissimi nel mondo, ed hanno concesso la loro fiducia alle aspettative di chi mette – o mettera’ – da parte i soldi guadagnati: per la casa, naturalmente. Il resto e’ di un’ovvieta’ sconcertante: la bolla economica irlandese si sgonfia, lo stato ci rimette una barca di soldi in mancati introiti e servizi sociali allestiti, le banche vanno in sofferenza, gli addetti all’economia digitale sono licenziati. Licenziati e’ un termine approssimativo, perche’ non erano mai stati assunti. Totale: bancarotta. La crisi irlandese e’, prima di tutto il resto, una tragedia sociale, i cui pseudo principi sono stati importati dall’estero.
grecanico
Fonte: 
http://www.loccidentale.it/articolo/perché+l'italia+non+è+l'irlanda.0099032

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