martedì 23 novembre 2010

Le 7 bugie sul federalismo fiscale

di Luca Antonini
Il processo di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale è quasi giunto al termine: sono già stati approvati dal governo cinque decreti legislativi. Quello sul federalismo demaniale e quello su Roma capitale sono ormai definitivi; gli altri tre hanno iniziato o stanno per iniziare l’iter dei pareri in Conferenza unificata e in Parlamento.

Sono i decreti su: fabbisogni standard di comuni e province; fisco municipale; fisco regionale, provinciale e costi standard in sanità. Sono in fase di elaborazione altri due decreti: quello sull’armonizzazione dei bilanci e quello su premi, sanzioni (come il fallimento politico) e meccanismi di governance. In totale si tratta di sette decreti, di cui cinque già presentati. In questi termini, il federalismo fiscale può essere definito il più imponente processo di razionalizzazione della finanza pubblica substatale realizzato nella nostra storia repubblicana.

Non è esagerazione. Si è trattato di raddrizzare quello che il ministro Giulio Tremonti ha definito «l’albero storto» della finanza decentrata. Un’operazione davvero complessa perché si trattava di storture ereditate, accumulate e stratificate all’interno di un trentennio di sostanziale finanza allegra. Eppure, nonostante tutti i chiarimenti forniti e il grande sforzo compiuto, continuano ad agitarsi, di tanto in tanto, alcuni ricorrenti luoghi comuni. Li mettiamo in fila e li chiariamo.

1 - «FA AUMENTARE I COSTI».
In realtà è l’opposto. Il costo ci sarebbe, infatti, non riformando ma conservando l’assetto attuale. Le competenze legislative e amministrative fonti di spesa già sono state decentrate con la disastrosa riforma costituzionale del Titolo V del 2001 e, prima ancora, con la riforma Bassanini del 1998. Il federalismo fiscale non ne prevede l’ulteriore incremento, non può quindi costare più di quanto già costa il sistema attuale. Un maggior costo ci sarebbe se non fossero indirizzate, drenate, contenute le attuali dinamiche e determinanti di spesa.

Il federalismo fiscale è l’unica maniera per razionalizzare e controllare in modo efficace una vasta parte della finanza pubblica italiana. Dove per controllo si intende soprattutto il controllo democratico esercitato nella sequenza «vedo-voto-pago » dai cittadini sui livelli di governo che sono più prossimi alla loro vita.

2 - «FARÀ SALIRE LE TASSE».
È la più recente, grossolana e strumentale vulgata. Non tiene conto di come stanno le cose. A seguito della riforma costituzionale del 2001, la spesa non discrezionale di regioni ed enti locali supera ormai quella statale. Il federalismo fiscale introduce una nuova tracciabilità di questa enorme spesa decentrata, attraverso i costi-fabbisogni standard che rendono trasparente quanto è spesa efficiente e quanto è spreco.

Oggi non c’è tracciabilità, c’è un minestrone che rende difficile il controllo del cittadino e anche quello politico. È diffuso il costume dello scaricabarile delle responsabilità: il sindaco scarica sulla regione le responsabilità del suo dissesto, accusandola di non avergli trasferito i soldi per gli asili o per i trasporti, la regione accusa lo Stato di non averle dato i soldi per la sanità e così via in una chiara confusione di responsabilità, che porta a fatti come i rifiuti di Napoli, dove la colpa non era di nessuno. I costi di questo minestrone alimentato dai meccanismi della finanza derivata sono pagati da tutti i contribuenti italiani e in piccola parte da quelli locali.

Il governo Prodi stanziò la cifra spaventosa di 12 miliardi di euro per cinque regioni del Sud in extradeficit sanitario. È  bene chiarirlo: quei 12 miliardi non si generarono dal nulla, li pagammo tutti con i soldi delle nostre imposte. Oggi quelle regioni sono ancora in forte disavanzo.

Il federalismo fiscale scrive la parola fine su tutte queste dinamiche e prevede che gli sprechi non siano più coperti dai ripiani statali. Se non si arrestano queste dinamiche, come si potranno ridurre le tasse? Da quando nel 2005 sono stati introdotti i piani di rientro ed è scattato l’aumento automatico, in caso di disavanzo, dell’addizionale regionale irpef, la crescita annua della spesa sanitaria che fino ad allora era del 6 per cento è scesa al 3. Vuol dire che la responsabilizzazione secondo il principio «chi rompe paga» ha fatto da deterrente alla crescita di una spesa che altrimenti sarebbe stata comunque a carico della fiscalità generale, cioè di tutti i contribuenti.

Bisogna continuare su questa strada. Il federalismo fiscale, inoltre, mette in atto una serie di meccanismi di governo del sistema che impediscono l’aumento ingiustificato delle imposte regionali, fino a prevedere sanzioni radicali come il fallimento politico. Il reale effetto del decreto sul nuovo fisco regionale è quello di porre le premesse per una concorrenza al ribasso sulla pressione fiscale: chi risparmia, riducendo sprechi e pletore, può ridurre l’irap, attirando imprese e sviluppando nuovi gettiti. Questa concorrenza virtuosa è l’essenza del federalismo.

3 - «SI CREA UNA GIUNGLA DI NUOVI TRIBUTI».
La situazione di partenza è un sistema regionale e locale che si alimenta con ben 45 fonti di gettito. Solo a livello comunale ne esistono 18. Più giungla di così è impossibile. I decreti semplificano radicalmente questo quadro. Per esempio, a livello locale con l’imposta municipale unica e secondaria vengono eliminati16 tributi. Il quadro viene profondamente semplificato e il cittadino dispone di una tracciabilità delle imposte prima impossibile.

4 - «DIVIDE IL NORD DAL SUD».
Il pericolo non viene da chi vuole fare, m a all’opposto da chi non vuole fare il federalismo fiscale. Il sacco del Nord di Luca Ricolfi descrive con puntualità le disfunzioni e gli sprechi di alcune regioni del Sud e del Centro. In Sicilia si spende per il personale regionale almeno 10 volte quanto si spende in Veneto. In Calabria era sostanzialmente inesistente tutta la contabilità della sanità. Quanto può andare avanti tutto questo? Avviare un graduale processo di lotta a queste disfunzioni e sprechi è l’unico rimedio di fronte a una situazione che diviene sempre più insostenibile in un’era che, per contesto internazionale e rischi possibili (vedi Grecia, Irlanda e Portogallo), è di vacche magre per tutti. Il federalismo fiscale è in realtà una opportunità di rilancio: alcuni governatori del Sud lo hanno capito.

5 - «METTE IN PERICOLO LA SOLIDARIETÀ E IL FINANZIAMENTO DELLA SANITÀ».
Il federalismo fiscale è fortemente solidale. Basti pensare al decreto sui costi standard in sanità. Vengono identificate cinque regioni in equilibrio economico, i cui sistemi sanitari hanno superato la verifica di qualità del ministero della Salute. Tra queste cinque, la Conferenza Stato regione ne identifica tre che diventano il benchmark per la determinazione dei costi standard. A tutte le regioni vengono così garantite le risorse pro capite con cui le migliori riescono a finanziare sistemi di eccellente qualità. Il decreto corregge con criteri scientifici anche il cosiddetto Lapis (secondo il gergo degli addetti ai lavori), ovvero la riformulazione che, come un tratto di matita, le regioni più scaltre e politicamente potenti riuscivano a scrivere sui riparti del fondo sanitario, volgendoli a loro favore, all’interno dei mercanteggiamenti del Patto per la salute.

6 - «È UNA SCATOLA VUOTA, MANCANO I NUMERI».
Il lavoro svolto dalla commissione tecnica per l’attuazione del federalismo fiscale ha reso confrontabili per la prima volta i bilanci regionali, superando le anomalie del federalismo contabile impropriamente introdotto dalla riforma costituzionale del 2001. La relazione presentata dal governo il 30 giugno alle Camere contiene in allegato oltre 120 pagine di tabelle e cifre. Altrettanti dati sono costantemente forniti. Ma forse chi solleva questa obiezione non si è preso la briga di leggere i documenti.

7 - «IL FEDERALISMO DEMANIALE METTE IN PERICOLO LA GARANZIA DEL DEBITO PUBBLICO».
Risponde la Corte dei conti: il federalismo demaniale «da un lato può offrire un volano finanziario per specifici interventi di riqualificazione del territorio e, dall’altro, può rappresentare un’importante opportunità per rivedere e per potenziare le possibilità di utilizzo di un patrimonio spesso trascurato o messo a reddito in maniera inadeguata» (audizione del 4 ottobre). Vengono infatti trasferiti beni che nel bilancio dello Stato sono computati con valori irrisori o senza assegnazione di valore (per esempio le spiagge). Una variante urbanistica fatta dal comune ricevente fa schizzare alle stelle il valore indicato nel bilancio dello Stato riguardo a una caserma inutilizzata, magari localizzata nel centro di una città. Se si crea valore, non c’è forse più garanzia?
redazione
Martedì 23 Novembre 2010
Fonte: http://www.panorama.it/

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