lunedì 29 novembre 2010

Le memorie sfregiate di Pompei


Creata il 29/11/2010 - 17:30
Mauro Francesco Minervino
STORIA. Il recente crollo della “Caserma dei gladiatori” è solo l’ultimo sbrego a uno dei siti archeologici più importanti del mondo. Un luogo, scoperto quasi per caso, che ha ispirato tante pagine letterarie (“La ginestra” di Leopardi ad esempio) e altrettante opere pittoriche. Questa città sepolta dalla lava ha rappresentato per secoli la memoria e l’immaginario dell’antico ma anche un monito per moderare la superbia e la presunzione dei moderni con le loro pretese di dominio sulla natura e di potere sul presente. Alle metafore di questo sito ha attinto anche la migliore coscienza filosofica dell’Europa e del mondo. Di tutto ciò è scarsamente consapevole la cultura italiana.
Quando si dice «gli ultimi giorni di Pompei». Quelli di adesso però. Quod non fecerunt Barbari - et Vesuvius. Non era bastata la terribile eruzione pliniana del Vesuvio, il terremoto, la cenere ardente che aveva seppellito uomini e cose più di 2000 anni fa. Per secoli l’antica Pompei aveva resistito agli sfregi, sigillata sottoterra dopo l’eruzione del 79 d.C. Curioso: la riscoperta della città antica avvenne tardi e fu per un caso. Roba da effetti collaterali di lavori pubblici d’annata. La costruzione del Canale di Sarno (guarda caso lo stesso, superabusato da cemento, inquinamento e cattiva manutenzione, che porta dritto ai guai alluvionali di oggi), eseguita dall’architetto tardo-rinascimentale Domenico Fontana tra il 1592 e il 1600, fece affiorare per la prima volta alla luce parti di edifici e iscrizioni pubbliche.
Una tragica allegoria
L’inizio ufficiale degli scavi archeologici nell’area coincise invece con il regno illuminato di Carlo III di Borbone. Solo nel 1763 la scoperta dell’iscrizione di T. Suedius Clemens in cui compare il nome di Pompeii permise l’identificazione certa della città. Il resto è storia di archeologi e viaggiatori, di pittori e scrittori, di colti ed eccentrici artisti e perdigiorno stranieri che dall’epoca del Grand Tour in poi vennero in quest’angolo impaludato dell’antica Campania Felix per aggirarsi tra le rovine e le stranezze esotiche del sito. Già allora Pompei era un bel souvenir per chi volesse riflettere senza troppe illusioni sui destini prevalentemente macabri e bizzarri che avvolgono le vicende del mondo e le imprese umane, destinate dal tempo al loro radicale “divenir altro”. Felicità e morte all’ombra del Vesuvio tratteggiavano un severo richiamo già allora, tra i calchi degli abitanti intrappolati dalla lava per strada, davanti ai resti corruschi del Foro e ai sontuosi Archi onorari avvolti dai fantasmi di imperatori e potenti trapassati nella polvere dei secoli. Un fascino che coglieva ben poco nel segno tra i nostri progenitori. A parte Giacomo Leopardi, che scrivendo La ginestra nel 1836 contempla il monito de “l’estinta Pompei, come sepolto scheletro” e davanti allo spettacolo della devastazione scrive: “secol superbo e sciocco”;  “l’uom di eternità s’arroga il vanto”; “non so se il riso o la pietà prevale”.
Pompei è stata la memoria e l’immaginario dell’antico, ma anche un monito per moderare la superbia degli spiriti “eletti” e la presunzione dei moderni con le loro pretese di dominio sulla natura e di potere sul presente. Un tesoro a cui ha attinto la migliore coscienza filosofica dell’Europa e del mondo. Tranne la nostra e quella dei nostri governanti. I nuovi più dei vecchi, a quanto pare. Il fascino estetico e la tragica allegoria dell’antica Pompei ha funzionato soprattutto per gli stranieri. Per intere generazioni di archeologi, come l’inglese sir Austen Henry Layard, e di collezionisti illustri come il barone Rothschild e lord Berwick. Anche le arti figurative si ispirarono a lungo alla pensosa contemplazione delle rovine di Pompei. La città disincagliata dalla cenere compare nelle opere di grandi vedutisti come Blechen o Hackert, che raffigurarono immagini dello stato degli edifici scavati o ne proposero ricostruzioni verosimili. Altri diedero vita a rappresentazioni del tutto immaginarie, come quella del pittore russo Karl Briullov, che nel 1833 fu il primo a dipingere un quadro intitolato “L’ultimo giorno di Pompei”.
Altrettanto fecero semplici viaggiatori, intellettuali e artisti europei passati da Pompei. Tra questi molti architetti francesi, che nell’Ottocento in visita ai resti della città campana riportarono in grafica ciò che vedevano in sito. Bellissimi i disegni e le ricostruzioni architettoniche di Pompei di Callet, Jaussely, Lesueur, Duban e Blouet, che non solo disegnarono lo stato dei monumenti in quel momento, ma illustrarono ricostruzioni delle architetture e di interi contesti paesaggistici dell’area pompeiana. Poi fu la volta di schiere di stranieri romantici, entusiasti e visionari, che da Goethe a Norman Douglas, dal Neoclassicismo sino all’Art Nouveau diedero nuove ali e fantasia alle immagini e all’immaginario di Pompei. La mitologia di luoghi di delizia e di tragedia come Pompei, Ercolano e Paeustum ritorna in pittori di fama come Füssli e Pitloo, in esteti raffinati come Godward e Alma-Tadema, in artisti italiani di buonissimo mestiere come Salfi, Gordigiani e Palizzi, solo per fare qualche nome. Poi giù fino ai nostri tempi senza più bellezza.
Smarrimento di senso
Gli ultimi giorni della Pompei di adesso sono invece quelli dei vacanzieri intruppati in un rito di passaggio del turismo di consumo. Pompei è diventata la tappa a buon mercato di una storia smemorata, un sito spalancato allo sbigliettamento di massa. In nome di un business senza più fascino e bellezza, aperto all’assalto di orde di turisti paninari e scarabocchioni, ai consumatori frettolosi di anticaglie pruriginose e souvenir di plastica. E non c’è fine. Povera Pompei. Doveva arrivare l’acquazzone drogato dai cambiamenti climatici a completare l’incuria sciagurata di questi tempi peggiori della lava del Vesuvio e politicamente scorretti, che più scorretti non si può, nei confronti della cultura e del patrimonio. Forse è anche per questo che il sinistro crollo della “Schola Armaturarum Iuventutis Pompeianae”, la cosiddetta “Caserma dei gladiatori”, è subito apparso foriero, urbi et orbi, di ben altre catastrofi social-politiche che agitano l’arena nostrana. Pompei crolla nell’incuria e nel fango dell’ennesima alluvione-scaricabarile in onda davanti alle tv di tutto il mondo.
L’ultimo sfregio arriva al seguito di Noemi e Ruby, con le sceneggiate terminali della cortigianeria in cui sguazza il basso-impero catodico berlusconiano. L’immagine di Pompei che frana coincide con lo smarrimento collettivo del senso di Paese, con la paralisi del sistema politico, col ritorno in grande stile della monnezza per le strade di Napoli. Il colmo di una congiunzione apocalittica che mette in fila tutti i simboli cosmici di sputtanamento materiale e morale percepito in Italia e all’estero. Il climax dello sfarinamento di questo Paese-reale in rovinosa caduta libera, che degli oneri della storia e della seduzione delle rovine - quelle onuste della gloria del passato - non sa più che farsene. Del resto, come pare aver detto per smarcarsi subito dell’impiccio dei crolli pompeiani il sulfureo poeta-ministro Bondi, «nihil potest durare tempore perpetuo».
Nel Novecento il maggiore archeologo italiano a scavare a Pompei fu Amedeo Maiuri, che proprio sul rinvenimento dei resti della Palestra dei Gladiatori ci ha lasciato pagine indimenticabili e piene di emozione, come questa: “Lo scavo della palestra, vicino all’anfiteatro, mi offrì un vero campo di morte. Vi si lavorava intensamente per riparare i danni del terremoto di 17 anni prima, operai e ragazzi erano al lavoro. Quando esplose la furia del vulcano corsero a ripararsi sotto la tettoia della grande latrina e, sbarrata la porta, attesero che la tempesta passasse: quando passò restarono chiusi in quel carcere. Dalle finestre era entrata la cenere e con essa la morte. Uno solo era rimasto fuori: il mulattiere con la sua bestia da fatica. Dopo aver bussato disperatamente alla porta, s’era raggomitolato come un grande lombrico nei suoi panni, con il capo incappucciato, e così era morto, contro il muro del portico, flagellato e soffocato dal turbine delle ceneri. Accanto si trovarono le ossa della sua bestia, che portava attorno al collo una collana di grani di vetro colorato, di quelle che ancora oggi i mulattieri napoletani usano mettere attorno al collo delle loro cavalcature”.
Pare che prima del crollo per le infiltrazioni d’acqua, dietro quei muri abbattuti, in quella che fu la caserma dei gladiatori, erano state montate persino delle grosse tende che servivano da camerini per gli spettacoli all’aperto. Magari per rappresentare una pièce teatrale tratta proprio da Gli ultimi giorni di Pompei di sir Edward Bulwer-Lytton, romanziere, drammaturgo e politico inglese. Un copione perfetto da mandare in scena proprio tra le antiche mura del Teatro Grande di Pompei.

Dopo lungo oblio il romanzone genere “spada e sandalo” dello scrittore inglese - che in Italia già nel 1913 divenne un film muto diretto da Mario Caserini-, richiamato in ballo in questi giorni come l’antonomasia dello stato delle cose nel nostro Paese, appare ricco di coincidenze e risonanze che ricordano sul serio molte delle magagne nazionali e delle poco commendevoli imprese del’attuale circo politico-mediatico. Scritto nel 1834 dopo un viaggio in Italia, Bulwer-Lytton fa rivivere la Pompei del 79 d.C. e ci accompagna per le vie della “città dei morti” come se fosse viva e attuale. Con l’immaginazione ci racconta le vicende di figure che vissero davvero a Pompei ai tempi dell’eruzione (come Sallustio, Diomede, etc.), e per storie e personaggi inventati prende ispirazione dai resti dei calchi pietrificati dei senza nome ritrovati durante gli scavi. Nel romanzo di Bulwer-Lytton succede di tutto.
C’è il catalogo alto/basso e versicolore dei vizi italici.
Rappresentati al meglio dal suo immutabile generone politico e di comando. I poveri sempre contrastati (il poeta tragico Glauco e l’amata Jone, una profuga greca sbarcata a Pompei da pochi mesi), gli intrighi di palazzo e la cattiva politica, il ricchissimo patrizio Clodio impegnato solo a soddisfare la sua smania di potere e di divertirtimenti piccanti, tra scongiuri e riti magici (con il cattivo Arbace, l’egiziano), gelosie tra cortigiane (Nidia, Giulia), schiavi coraggiosi che combattono nell’arena come il gladiatore Lidone, e persino la comparsa di un nuovo partito religioso (la “setta” dei cristiani). Sullo sfondo incombe minaccioso il Vesuvio, che ora come allora, se si incazza di nuovo è pronto a rivoltare in tragedia la storia e a seppellire tutto e tutti  nel giro di poche ore, come accadde nella catastrofe che incenerì la città nel 79 d.C.

Le pagine di letteratura
Per secoli il sito di Pompei con l’immaginario delle sue rappresentazioni nella letteratura, nella filosofia e  nell’arte, ha mantenuto un ruolo guida nella stratificazione della cultura intellettuale europea. Rovine eccellenti, eredità considerate a lungo il participio morale dell’epopea umana successiva alle scoperte e ai primi scavi archeologici moderni. Il significato allegorico delle rovine pompeiane, la decadenza degli archi trionfali dedicati a sommi imperatori come Augusto, Tiberio e Caligola, i calchi dei morenti, i resti del tempio della Fortuna, lo spoglio della città e dei suoi monumenti abbandonati al tarlo del tempo e all’indifferenza della natura mediterranea, restano capitali estetici e culturali per tutta l’umanità.
La “moral suasion” esercitata da Pompei sulla riflessione filosofica e sull’immaginazione artistica dura a dispetto di tutto. Un filosofo della storia come Walter Benjamin, ancora nel 1931 a seguito di un viaggio al Sud scrisse La scomparsa di Pompei ed Ercolano. Persino adesso in tempi di crisi globale rimane una sola Pompei.
In un romanzo del 2003, Pompei, Robert Harris rilegge il fuoco che ha avvolto e distrutto le torri gemelle di New York, segnale del lunga decadenza della civiltà occidentale, come il fuoco che distrusse Pompei prima della civiltà romana. E forse senza un racconto minore dello scrittore tedesco Wilhelm Jensen (1837-1911), autore di Gradiva. Una fantasia pompeiana, non avremmo mai avuto neanche l’interpretazione dei sogni e la Psicoanalisi di Freud e Jung. L’ingarbugliata narrazione pompeiana descritta da Jensen nel 1903, fu poi analizzata e portata a ragione nel celebre saggio di Freud Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen. Lo stesso Freud mosso dal desiderio di vedere Pompei “volge al Sud” pensiero e passione. Davanti ai resti dell’area archeologica visitata nel 1901, riflette sul seppellimento della città antica. Intuisce che gli strati di cenere conservano il passato scomparso in un modo simile a quello delle rimozioni della psiche e comprende quanto l’esperienza dello psicoanalista sia comparabile a quella dell’archeologo. Così, tra le rovine del passato e gli scavi della vecchia Pompei decifrati dal padre della psicoanalisi, scaturiva il centro del pensiero critico prodotto dalla ragione occidentale del Novecento.
Noi invece continuiamo a brancolare negli incubi italici. Credendo di vivere nel migliore dei mondi possibili, lasciamo Pompei -  dichiarata nel 1997 dall’Unesco sito patrimonio mondiale dell’umanità “per il suo valore di testimonianza della vita quotidiana e urbana nella civiltà romana” -  alluvionata e franata, sommersa dall’incuria e dalla piena del turismo selvaggio.
http://www.terranews.it/news/2010/11/le-memorie-sfregiate-di-pompei-0

Nessun commento: