venerdì 17 dicembre 2010

Pompei e botox

Articolo di Società cultura e religione, pubblicato martedì 7 dicembre 2010 in Belgio. [De Standaard] [Articolo originale "De Standaard " di Luc Devoldere ]
Affreschi, cimiteri di guerra e ginestre sul Vesuvio.
Se un muro crolla nell’attrazione turistica più visitata d’Italia, il mondo intero viene preso dal panico.
LUC DEVOLDERE crede invece che sia meglio rassegnarsi, in quanto vi è una contraddizione intrinseca alla conservazione del patrimonio: così facendo spesso lo roviniamo.

Durante il mese di novembre a Pompei sono crollati un edificio e alcune pareti. Questi muri hanno ceduto a causa della pioggia caduta per giorni nella zona. Nel contempo, nel golfo di Napoli si è nuovamente accatastata l’immondizia perché la gente non vuole le discariche nei propri quartieri e la camorra controlla il lucroso affare della raccolta dei rifiuti.
Ora tutti insieme e pomposamente possiamo ancora una volta intonare il mantra su quel Paese in rovina dove niente è ben organizzato, dove nemmeno l’immondizia viene raccolta – principio e condizione base per l’esistenza della civiltà– un Paese che non è in grado di salvare i propri tesori dell’arte e conservare il proprio patrimonio.
Quest’ultimo punto è abbastanza facile. In nessuna parte del mondo ci sono così tanti tesori d’arte e reperti archeologici accumulati come in Italia. Limitarsi a lasciare tutto questo più o meno inviolato, è già quasi impossibile. In ogni caso, il Foro Romano ora appare molto diverso da come era nei disegni realizzati da Maarten van Heemskerck nel XVI secolo, dove i monumenti sono ancora per metà infilati nel terreno, e dove le verande e la vegetazione danno loro un aspetto completamente diverso e dove ancora pascolano le mucche. Quante volte è stata ridipinta l’Ultima Cena di Da Vinci a Milano? Ammiriamo ancora effettivamente il lavoro di Da Vinci? Personalmente preferisco le rovine drappeggiate da fogliame della Roma del Piranesi, ma proprio quella Roma è una finzione e le rovine tra le quali gli alberi crescono, sono sul cammino irreversibile verso il ritorno alla natura, come fossero mucchi di calcinacci.

Come Orfeo ed Euridice
Il sito di Pompei è vasto. Gli edifici non hanno più i tetti. Le mura esterne diventano pareti interne. Il decadimento è scritto nelle stelle. Il muro crollato era già collassato durante la seconda guerra mondiale. Anche questa volta si raccoglieranno e si ricicleranno le pietre. Naturalmente, Pompei ha bisogno di denaro. Oltre che di un piano.
Eppure c’è altro da dire su Pompei.

Nel film Roma (1972) di Fellini è contenuto un episodio straziante: durante i lavori della metropolitana nella capitale, un escavatore penetra all’interno di una villa romana. Uomini e donne, con caschi e torce, entrano incerti nelle stanze della villa. Le torce lentamente accarezzano gli affreschi che per la prima volta dopo quasi due millenni si rivelano agli occhi umani. E poi l’inevitabile accade: insieme alla gente è entrata nella stanza anche l’aria del 1972. L’aria diventa vento, il vento una nuvola di polvere e, davanti ai nostri occhi, gli affreschi si dissolvono, scivolano via lungo le pareti. In pochi istanti finisce la festa e tutto è sparito. Il passato è stato ritrovato e per sempre perduto. Sconfitti come Orfeo perdiamo Euridice per sempre. La scena è di una malinconia che ti colpisce dritto in faccia.

La gente modifica le cose e la realtà muovendosi al suo interno. Vuole salvare le cose ma, proprio nel tentativo di salvarle, le rovina. Non può essere altrimenti con “l’autentico”. Non appena lo si sperimenta, non è già più “autentico”.

Il paradosso degli scavi
Prendiamo ad esempio le tombe etrusche vicino a Tarquinia. È possibile visitarne alcune ma la maggior parte sono ancora interrate. Si conosce la loro ubicazione ma non si può (mancanza di soldi) o non si vuole (?) portarle alla luce. Sono assolutamente certo che negli anni ‘80 del secolo scorso nelle tombe nei pressi di Tarquinia ho visto degli affreschi che io, solo per il fatto di respirare e quindi di essere vivo, ho contribuito a condannare a morte. Un pensiero che turba?

Dobbiamo scavare cose che ora se ne stanno tranquille sotto terra e che lì sono se stesse, possono continuare a essere se stesse? Non appena le le dissotterriamo, le esponiamo alla luce, all’inquinamento atmosferico, alla vita che appunto le uccide. A meno di musealizzarle, rinchiuderle in bunker o in gabbie dove la giusta climatizzazione le tiene in vita. Ma così vivono davvero?

Prendete la statua equestre di Marco Aurelio. L’unica sopravvissuta dall’antichità. Per diciotto secoli è stata all’aperto. Nel XVI secolo è stata trasferita dal Laterano al Campidoglio, ultimo tassello della piazza disegnata da Michelangelo. Una volta ho tracciato una linea divisoria tra i visitatori di Roma che hanno visto la statua in Piazza del Campidoglio e tutti coloro che ora vedono una copia fin troppo luccicante, mentre l’originale è stato esiliato nel museo accanto alla piazza. Per secoli, la gente non si è curata della statua, che è però rimasta in piedi. Ora la rispettano, ma la conservano come fosse una mummia. Questo fatto mi colpisce. Una volta ho scritto che per quanto mi riguarda questa “messa in mostra” non era necessaria. Se non eravamo in grado di lasciare la statua all’aperto, perché il bronzo veniva intaccato dall’inquinamento atmosferico e dalle vibrazioni della città, bene, allora meglio lasciare che rovini al suolo. Perché le cose dovrebbero durare per sempre? Neanche noi duriamo per sempre? Quando in una lettera ho chiesto al Commonwealth War Graves Commission, se avessero intenzione di continuare a mantenere i cimiteri di guerra britannici nelle Fiandre marittime, ho ottenuto una risposta che diceva: In perpetuity, in perpetuo. Trovo l’ambizione magnifica ma, considerato il tempo che tutto distrugge, è fattibile? Le Temps, ce grand Sculpteur. Il Tempo, questo grande Scultore.

Gestire la transitorietà
Ed ora guardiamo Pompei.
La cosa più bella mai scritta su Pompei è di Giacomo Leopardi. Forse proprio perché non tratta direttamente di Pompei. La Ginestra, un poema di 317 versi, è dedicato alla ginestra che cresce sulle pendici del Vesuvio. Leopardi l’ha scritto nel 1836, durante un soggiorno sulle colline ai piedi del vulcano in una villa a Torre del Greco. Egli descrive la profumata ginestra come il fiore del deserto, l’umile pianta tenace che resiste laddove tutti i palazzi e le città scompaiono. Il punto di osservazione del poeta – di notte sui desolati pendii di lava, tra mare e stelle, – diventa il punto casuale per una meditazione sul nostro essere persi nell’infinito di un universo che non ci conosce. Le persone devono rinunciare alla violenza reciproca, dice Leopardi, e anzi devono trovare rifugio insieme per difendersi dal vero nemico, una Natura indifferente e superiore. L’uomo non è altro che un fungo sulla sua pelle, un patetico ascesso. La fede cieca nel progresso che spinge l’umanità è, sullo sfondo di una cosmica e inutile metastasi, niente di più che un ridicolo equivoco. Guarda le ginestre nel campo. Non mietono e non seminano. Muoiono in silenzio sotto il manto di lava, innocenti, senza opporre resistenza. Non anelano all’immortalità ma sono tuttavia, in tutta la loro silenziosa fierezza e saggezza, superiori agli uomini vanitosi, prigionieri del loro delirio.

Pompei, il sito più visitato dai turisti di tutta Italia – è un tipico esempio di parco archeologico catastrofico che geme sotto le masse umane che desiderano vederlo e che lo rovinano con il proprio passaggio. Una volta, a titolo di provocazione, ho scritto: “Se tutti noi – archeologi, turisti, passanti – lasciassimo la città deserta e abbandonata a se stessa? Potrebbe di nuovo trasformarsi in paesaggio e dopo la prossima eruzione, chissà – in ginestre”.

Non sono sicuro di avere ragione. Non si tratta di questo. Si tratta di come gestiamo la transitorietà: si può restaurare e ristrutturare, proteggere e puntellare. Poi finalmente approntare un rifugio e poi un tetto e una campana di vetro – e poi rinchiudere il tutto in un museo. Si può proclamare tutto patrimonio. Possiamo combattere l’impermanenza e possiamo temporaneamente metterla fuori gioco con il Botox, il jogging e le pillole, ma alla fine dovremo tutti chinare il capo. Le rovine di Pompei, anche. È poi così grave? Sì, ma la vita stessa è dura.
http://italiadallestero.info/archives/10579


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