mercoledì 1 dicembre 2010

Mario Monicelli


Quello che in Italia non c’è mai stato, una bella botta, una bella rivoluzione, Rivoluzione che non c’è mai stata in Italia… c’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, 300 anni che è schiavo di tutti
1 dicembre 2010 | 06:12

Viziati e mammoni. I giovani secondo l’ultimo Monicelli
Pubblichiamo ampi stralci dell’ultima intervista a Mario Monicelli pubblicata nel libro Gioventù sprecata. Perché in Italia si fatica a diventare grandi, di Tonia Mastrobuoni e Marco Iezzi, edito lo scorso giugno da Laterza.
Ha cominciato a 18 anni, come «il più miserabile degli assistenti, accendendo le sigarette ai registi e aiutandoli a mettersi il paltò», oggi ha scarsa indulgenza, dall’alto dei 94 anni e di una sessantina di regie di film, per chi gli fa perdere tempo. «Insomma, che volete sapere?», chiede, brusco. Il suo cinema è considerato dai critici l’alfa e l’omega (...) della commedia all’italiana. I soliti ignoti (1958) e Un borghese piccolo piccolo (1977) sono il primo e l’ultimo capolavoro di quella grande stagione di cinema cosiddetto “di genere” (...).
Pubblichiamo ampi stralci dell’ultima intervista a Mario Monicelli pubblicata nel libro Gioventù sprecata. Perché in Italia si fatica a diventare grandi, di Tonia Mastrobuoni e Marco Iezzi, edito lo scorso giugno da Laterza.
Eppure, Mario Monicelli non fa che ricordare, a ogni pie’ sospinto, che quel cinema autoriale aveva una genesi collettiva, nasceva spesso nei caffè e nelle osterie romane in un clima di grandi risate e litigate furibonde, negli anni della faticosa rinascita dalla ceneri della seconda guerra mondiale. «Non solo io, la mia generazione era fatta così, era unita, solidale». Sui giovani di oggi è severo. «Voi, al contrario di noi, siete soli, disincantati, disinteressati a tutto. Sì, siete dei mammoni, proprio dei gran mammoni viziati, se è questo che volete sapere».
Sin dagli anni Trenta, dal periodo milanese dei primi cortometraggi (…) il suo cinema è dichiaratamente un puzzle di contributi eterogenei. Ma il lavoro titanico dell’assemblamento dei singoli tasselli spettava sempre a lui, al regista-demiurgo, a lui spettava l’ultima parola su tutto e sua era l’impronta. Nel caso di Monicelli, un’impronta inconfondibile. Eppure lui preferisce raccontare ancora oggi che a Roma, dopo la guerra, negli anni Cinquanta e Sessanta, chi andava a mangiare un piatto di pasta da Otello a via della Croce si imbatteva facilmente in un branco di cineasti affiatati che si scambiavano idee e battute. Da Otello si incontravano lui e gli altri grandi registi e sceneggiatori di quel tempo, da Age e Scarpelli a Germi, da Antonioni a Benvenuti, da Petri a Rosi, fissi, sempre allo stesso tavolone addossato alla parete, vicino alla cucina, a infervorarsi sulla politica e a tirar tardi giocando a scopone con le saracinesche abbassate. Oppure, visto che negli anni del dopoguerra in molte case mancava il riscaldamento, si ritrovavano nei caffè, a scrivere le sceneggiature e a inventarsi le commedie. A mettere insieme in dieci o in quindici, ognuno buttandoci dentro qualche battuta, una sceneggiatura per un film con Totò nel giro di qualche giorno. «E tutte finivano sempre - ricorda - con un gran fugone di Totò».
La solitudine, osserva, «è importante, è un’opportunità, serve a riflettere, a ragionare a non stare in superficie. Ma è un fatto che il cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta era un cinema di grande convivenza. Eravamo un gruppo di settanta cinematografari, autori, attori scrittori di cinema e frequentavamo gli stessi ristoranti e gli stessi caffè. Eravamo molto solidali, ci scambiavamo le idee, il lavoro. Ci muovevamo sempre insieme, a fare i pranzi fuori porta sotto i pergolati, a improvvisare qualche partita a calcio. Era una generazione solidale, era qualcosa che non riguardava solo il cinema. Avevamo tante amicizie anche fuori dall’ambiente del cinema, tra i giornalisti, i pittori, gli architetti. Per me non è un caso che abbiamo fatto il boom economico, che abbiamo risollevato il Paese dopo una guerra devastante, che aveva fatto sessanta milioni di morti. Mica c’era solo il cinema! La mia generazione ha costruito tante industrie che in Italia non c’erano. Ha inventato la Lambretta, la Vespa, il brevetto del ‘tubo Innocenti’, sapete, quegli snodi per le impalcature che ancora oggi vengono utilizzati un po’ ovunque. Abbiamo fatto le autostrade, le infrastrutture per il Paese, abbiamo ricostruito le città. Il miracolo l’abbiamo fatto noi e l’abbiamo fatto così, tutti insieme».
Oggi, per Monicelli, il clima è radicalmente diverso. «Voi siete isolati, vi siete adagiati sul consumismo, non avete interessi. E adesso che c’è questa catastrofe della crisi economica, rischiate tutti il baratro». E poi, scuote la testa, «la verità è che non avete più il coraggio di dire niente. Se uno ha qualcosa da dire, anche in contrasto con gli altri, deve dirla sempre. Se fai il cinematografaro dilla con il cinema, fai il danzatore dillo con la danza, fai il letterato dillo con un racconto. Se hai qualcosa da dire dilla sempre! Il problema è che adesso non avete niente da dire». Anzi, «voi giovani di oggi state ‘sbracati’ a parlare di calcio e di donne. E ormai poco pure di quelle». (..)
Un’altra cosa che lo indigna è la rassegnazione dei giovani, la loro passività. «Il ruolo della politica è sempre stato quello di incitare la speranza e di tenervi tranquilli e farvi credere che le cose andranno meglio. È sempre stato così, ma se ci credete siete degli imbecilli! La speranza è una truffa, è una trappola, è una parola che non va mai pronunciata. La speranza è dei potenti per tenere a bada i subalterni. È una parola che usano i religiosi che vi dicono: ‘state buoni, pentitevi, chiedete perdono che nell’altra vita tutto andrà bene e sarete ricompensati’. La politica fa la stessa cosa. Vi dicono ‘state tranquilli, non vi spaventate vedrete che le cose cambieranno perché noi siamo bravi e sappiamo condurre l’amministrazione di questo Paese’. Non bisogna avere speranze, bisogna avere desideri, mete e traguardi da raggiungere».
Per Monicelli, non è solo una questione di politica e di religione, ma anche di educazione. «Siete viziati, non avete aspirazioni. Siete protetti dalla famiglia. A scuola, se un ragazzino prende un brutto voto a scuola, i genitori vanno a lamentarsi dagli insegnanti. Ridicolo: ai tempi miei, se portavo una brutta nota a casa mi dovevo nascondere ché sennò le beccavo di santa ragione!». Monicelli, cresciuto tra Viareggio, Roma e Milano, figlio di un grande critico, Tomaso, che fondò la prima rivista di cinema, “Lux et umbra”, ha respirato cinema da sempre. Da ragazzo andava a vedere i film muti, per i quali ha sempre continuato ad avere una passione immensa. (…) Ha cominciato a fare i primi cortometraggi poco dopo l’avvento del sonoro con il cugino Alberto Mondadori, a Milano, partecipando assieme ad Alberto Lattuada a gare di cinema. L’esordio fu dunque questo, un lavoro collettivo tra amici che avevano una grande affinità, ripete spesso.
I suoi desideri, le sue aspirazioni, sono sempre state le stesse. «Sin da giovane ho cercato di costruire un mondo nel quale ci fosse uguaglianza, giustizia sociale e, di conseguenza, libertà. Io e i miei compagni abbiamo cercato di raccontare questo nei film, era questa la spinta che aveva l’Italia, nel dopoguerra». Certo, erano film spietati, le risate che suscitavano nel pubblico lasciavano spesso un sapore amaro, ma era la caratteristica di tutta la commedia all’italiana. Monicelli è stato il regista di Alberto Sordi, ma è stata sua la grande intuizione del Gassman comico e i suoi film mettono a nudo i tic e le meschinerie piccoloborghesi, raccontano rapporti di amicizia goliardici e crudeli. Amici miei, rammenta, «è un film in cui si vede chiaramente questo legame tra uomini - all’epoca c’era una separazione molto più netta tra maschi e femmine - che si comportano come ragazzi, che non vogliono invecchiare, che sono crudeli tra di loro, ma anche molto uniti». (…)
È facile incontrare il grande regista in una trattoria famosa del quartiere Monti: «siccome sono solo», racconta, «e mi muovo poco, nel senso che sono poco mobile, ad arrivare lì e a mangiare un boccone ci metto poco. Certo, la vecchiaia vuol dire, ad esempio, che ci sento bene solo con il telefono appiccicato all’orecchio è faticoso rassettare casa e me stesso. Ma sono attivo, attivo e contento». Monicelli ha fatto il soldato durante la seconda guerra mondiale, ha ancora un portamento eretto, fiero e ci tiene a precisare che «è importante tenermi in ordine».
La sua scarsa considerazione per i giovani deriva anche da una riflessione storica. «Io penso che il problema nasca con la generazione dei nostri figli. Quando l’Italia si è rimessa in piedi e ha ritrovato un certo benessere, le persone hanno cominciato a non poterne più di sacrificarsi, di vivere con poco. Volevano il riscaldamento sempre acceso, le comodità, volevano mangiar bene e buttarsi nel consumismo. E hanno voluto garantire le stesse comodità ai figli. Ed è così che siete diventati tutti mammoni».
Tonia Mastrobuoni
Marco Iezzi

Commedia e cattiveria di un comunista incazzato
di Andrea Minuz
SENILITÀ. La lotta anticensura, la rabbia per un Paese più vecchio di lui, l’antimoralismo di sinistra. Con Mario la rivoluzione aveva un altro sapore.
Si era infiammato per il G8 di Genova, aveva aderito al popolo-Viola e parlato al No-B-Day, si era sfogato da Santoro, sull’Italia, gli italiani e la deriva di entrambi. Perché Monicelli agiva al presente e pensava al futuro, fino all’ultimo, fino a che non ha trovato più alcun senso in nessuno dei due. Quando faceva capolino da “Otello” – la trattoria romana che ha nutrito metà del nostro cinema, dove si incontravano Gassman, Age e Scarpelli, Tonino delli Colli e tanti altri, tutti più giovani di lui – Monicelli apostrofava la tavolata con un implacabile: «Ammazza, ci stanno solo vecchi qui, io vado a mangiare da un’altra parte». Da anni aveva scelto di vivere a Monti, la suburra del centro storico, non perché gli ricordava le passeggiate notturne nella Roma deserta degli anni Cinquanta, a discutere con gli amici di cinema e di politica fino a tardi, no. Amava Monti perché era ai suoi occhi la metafora perfetta dell’Italia: un quartiere, come amava ricordare, che «è pieno di chiese e mignotte».
In tanti, sui loro blog e su Facebook, hanno postato video con le recenti apparizioni in tv che testimoniano l’impegno e la passione politica, ma sarebbe più corretto dire, la sua incazzatura permanente e di tempra-tutta-toscana, per lo stato delle cose. Un’incazzatura che la vecchiaia sembrava aver reso più lucida, priva di quella compiacenza o rassegnazione che potrebbe prenderti quando ti accorgi che il tuo Paese è invecchiato di più e peggio di te. Consiglio di andarsi a rivedere (su YouTube), una puntata d’antan di Match, trasmessa da Raidue nel 1977, con Alberto Arbasino moderatore dello scontro generazionale tra Mario Monicelli e un preistorico Nanni Moretti capellone, in versione Frank Zappa. Mentre Moretti gli dà del reazionario, e dimostra di non aver capito granché di quel plumbeo capolavoro sull’Italia degli anni Settanta che è Un borghese piccolo piccolo, Monicelli lo zittisce: «Tu parli di cattiveria? Io sono cattivo, NON tu».
Questa cattiveria Monicelli l’ha distribuita equamente lungo la sua opera. Era comunista Monicelli. Non ne fece mai un mistero, anzi. Ma questo (cosa assai rara nel nostro Paese), non gli impediva di essere cinico e spietatamente realista nei confronti dell’Italia e degli italiani, totalmente alieno al moralismo di sinistra. Aveva intuito il potenziale politico della maschera di Sordi quando tutta la sinistra lo sbeffeggiava, e mostrato il ruolo catartico dello sberleffo, dalla supercazzola di Amici Miei, agli scherzi del Marchese Onofrio del Grillo. Il mito della rivoluzione per lui non era un oppio con cui stordirsi sognando l’avvenire. Casomai un gesto dimostrativo per darsi la carica, come il suono della sirena anticipato nella fabbrica de I compagni, sapendo che dopo potrebbe essere peggio di prima.
In bocca a Monicelli, la rivoluzione aveva un altro sapore. Perché non si fugge via dalla nostra storia che, come ci ha spiegato Dante ben prima del cinema, non è una tragedia, ma una commedia, i cui ingredienti sono, secondo Monicelli, «tanto coraggio, tanta viltà e tanto conformismo», una cosa difficile da spiegare all’estero, e a volte anche a noi stessi. Una cosa che capisci solo rivedendoti il finale di La Grande guerra, con il gesto folle ed epico di Sordi. Fin dalla metà degli anni Cinquanta, quando ancora non circolava l’espressione “commedia all’italiana” (verrà adottata sulla scia di Divorzio all’italiana, di Germi), Monicelli esce dai meccanismi immediati del comico, ribaltandoli in una satira più graffiante, cattiva. Nel 1955 si scontra subito con il conformismo della società italiana. Il film è Toto e Carolina, con Totò nel ruolo dell’agente Caccavallo, poliziotto poco integerrimo. È al massimo una bonaria presa in giro del gendarme, che però fa infuriare la censura che rimuove oltre trenta minuti di film (stessa sorte per Guardie e ladri, con Totò e Aldo Fabrizi, accusato di “sovvertire la morale”).
Erano altri tempi, un’altra Italia, certo. Ma fa un certo effetto il cartello che venne imposto nei titoli di testa, previa la messa al bando del film. C’è scritto: «Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia (…). Gli eventuali riflessi nella realtà non hanno riferimenti precisi, e sono riscattati da quel clima dell’irreale che non intacca minimamente la riconoscenza e il rispetto che ogni cittadino deve alle forze di Polizia». Molti anni dopo, a Genova, dove si impegnò nel documentario diretto da Maselli per testimoniare sui fatti del G8 («eravamo io, e tanti altri registi rimbambiti come me») a Monicelli deve essere sembrato che l’Italia fosse ferma agli anni Cinquanta. Solo più cattiva, spietata e sporca, di quella che gli censurava i film con Totò.

Monicelli, non ci sarà mai più  un maestro come lui
LIETTA TORNABUONI
Non ci sarà più nel cinema italiano un regista come Mario Monicelli, così come non ce ne era stato alcuno prima di lui. Il motivo è semplice. I suoi film non debbono nulla allo stile nè alle situazioni italiane nè alle mode del momento nè ai filoni in voga o alle esigenze commerciali: debbono tutto all’intelligenza personale sua e dei suoi sceneggiatori. E non soltanto all’intelligenza: Monicelli è stato un vero intellettuale, cresciuto in una famiglia toscana di intellettuali, un uomo colto in una accezione davvero molto rara di intellettuale capace di comprendere e rappresentare il sentimento popolare, di unire alla qualità satirica del grande commediante le emozioni umane e disumane, il grottesco, il ridicolo che danno sapore all’esistenza.
Grande precoce: aveva soltanto vent’anni, era studente universitario a Firenze e a Pisa, quando già nel 1935 vinse un premio alla Mostra di Venezia con un adattamento da dilettante de I ragazzi della via Paal. Grande lavoratore: più di settanta film, alcuni indimenticabili, altri dimenticati, altri ancora distratti o meno riusciti, tutti insieme in grado di offrire un’immagine in movimento dell’Italia del tempo. Grande combattente: pochi come lui dovettero affrontare la censura, tagli, mutilazioni, chiamate in giudizio, divieti (Totò e Carolina fu il più massacrato dei suoi film). Dopo le prime opere con Totò dirette insieme con Steno, la sua svolta verso la commedia all’italiana aggressiva e critica, satira sociale e di costume, viene attribuita a I soliti ignoti (1958) che segnò pure gli inizi di Vittorio Gassman come attore comico. Tra i suoi film più popolari e proverbiali sono La grande guerrra (1959) ispirato al racconto di Maupassant Due amici, L’Armata Brancaleone, Amici miei, più tardi Speriamo che sia femmina. Tra i meno spesso ricordati sono invece il terribile Un borghese piccolo piccolo, gran prova di attore di Alberto Sordi; I compagni (1965) sul movimento operaio e sociale fine Ottocento; Vogliamo i colonnelli (1973) che rispecchia le tentazioni golpiste d’epoca; Risate di gioia con Totò e Anna Magnani, Le due vite di Mattia Pascal.
La satira di Monicelli è unica nel cinema italiano: non è lieta, non indulge alla comicità facile o sboccata, spinge fino in fondo la lama della critica, non è mai qualunquista. E’ la satira di un moralista deluso, che guarda con lucidità un mondo che non gli piace, gente che non apprezza. In questo sta la sua unicità; e anche nella forza del carattere che gli ha permesso di farla finita come voleva, quando voleva.

Monicelli, parla la moglie: era disgustato dall’Italia
01 dicembre 2010
«Viveva in modo non consono alla sua dignità di uomo e ha deciso per conto suo senza avvertire nessuno, senza lasciar nulla di scritto, a parte il dire a voce che era stufo, si chiedeva che vita fosse».
Così, intervistata dal Corriere della Sera, Chiara Rapaccini racconta gli ultimi giorni e i pensieri di suo marito Mario Monicelli, maestro del cinema italiano che si è tolto la vita lunedì sera a 95 anni nell’ ospedale romano di San Giovanni. «Alla fine - spiega - ha preso una decisione forte e coerente come sempre da uomo coraggioso e noi familiari la consideriamo tremenda ma la rispettiamo».
La moglie del regista sottolinea che in ospedale «è stato coccolato, curato e lui ha voluto andarci non per urgenza ma perché diceva di sentirsi a casa». «A 95 anni - prosegue - il corpo cedeva ma la mente era lucidissima e perciò era stufo di questo Paese, disgustato nel sentire ciò che veniva raccontato dalla radio, sua unica fonte di informazione, perché non ci vedeva più. Questo disgusto era diventato un malessere fisico, si trovava in un mondo vile che andava contro i suoi principi, ma lui vile non lo era e l’ha dimostrato». Monicelli è morto suicida come il padre, ma «in modi e per motivi diversi», spiega la moglie, certo «è vero che Mario fu presente alla morte del padre e ne rimase certo scioccato».
Il mondo del cinema, aggiunge Chiara Rapaccini, non lo ha abbandonato: «Avevano formato un cordone protettivo, mi chiamavano tutti, da Scola ai Taviani per andare a trovarlo ma se mai era lui che si era un pò staccato: s’interessava alle lotte per la cultura ma non più alle beghe del cinema, le serate, i premi, era storia del passato e si stupiva che i nostri film raccontassero poco l’Italia di oggi».
Veronesi: con eutanasia fine più dignitosa
«Mi sono chiesto perché abbia lucidamente scelto una morte così violenta. Purtroppo non sempre un medico riesce a lenire la sofferenza di un paziente e in questo caso la condizione terminale doveva risultare insopportabile». Così l’oncologo ed ex ministro della Sanità Umberto Veronesi commenta la morte di Mario Monicelli in un’ intervista al Mattino, definendo «condivisibile» il dubbio di chi pensa che se in Italia fosse stata legale l’eutanasia, il regista sarebbe morto in modo più dignitoso.
«Come pensatore laico e difensore dei diritti del malato - aggiunge -, la mia riflessione è: se è ormai da tutti accettato che ognuno di noi, in ogni circostanza, ha il diritto di non soffrire, perché questo diritto non deve valere nella fase terminale della malattia, proprio quando la sofferenza può essere più intensa?».
Nella realtà, prosegue, «per i familiari e per i medici accettare di mettere fine alla vita, per quanto dolorosa o indignitosa, di una persona che si ama è comunque tutt’altro che ridicolo: è una decisione tragica. Ciò che sostiene il medico dal punto di vista deontologico e i familiari dal punto di vista affettivo è la volontà della persona e il rispetto per il suo pensiero. Per questo è importante che questa volontà sia sempre chiara e lucidamente espressa».
http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2010/12/01/AMqvoUJE-monicelli_disgustato_moglie.shtml



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