venerdì 19 novembre 2010

L’Italia non è un Paese per archeologi


Creata il 19/11/2010 - 14:24
Giulia Sterpa
COMMENTI. Un lavoro troppo precario e pochissimo riconosciuto al livello sociale, percepito nella maggior parte dei casi come una sorta di bel passatempo e nulla più. Ecco cos’è l’archeologia in Italia, secondo la mia esperienza.

Un lavoro troppo precario e pochissimo riconosciuto al livello sociale, percepito nella maggior parte dei casi come una sorta di bel passatempo e nulla più. Ecco cos’è l’archeologia in Italia, secondo la mia esperienza.

La prima volta che ho messo piede su un cantiere archeologico avevo vent’anni. Alle pendici del Palatino, nel Foro romano, il cuore della romanità. Ho continuato a lavorare, presso grandi cooperative archeologiche o come libera professionista e ancora lo faccio oggi. Da sempre mi sono trovata a dovere spiegare cosa fa un archeologo. Qual è il suo lavoro. Curioso, se si pensa che viviamo in un paese che dispone di un’enorme patrimonio artistico. La maggior parte di noi lavora soprattutto grazie agli scavi urbani: la costruzione di un parcheggio piuttosto che l’ammodernamento di un’infrastruttura ci permette di lavorare più o meno continuamente a seconda del posto in cui vivi. Nelle grandi città interventi di questo tipo sono frequenti, nei centri minori puoi stare senza lavoro per mesi. Spesso si “arrotonda” con le visite guidate, con piccoli contratti di schedatura (studio) dei materiali, qualcuno con le ripetizioni private o con qualche supplenza nelle scuole.

La nostra presenza sul cantiere è generalmente mal tollerata, normalmente siamo visti come quelli che rallentano i lavori facendone lievitare i costi. Poiché infatti le Soprintendenze non dispongono dei fondi necessari per finanziare la ricerca, sono le committenze (pubbliche o private) che pagano fattivamente la nostra presenza sul cantiere, sopportandola per quanto riguarda la fase di scavo vero e proprio perché obbligate dalla legge, ma rifiutandone quasi sempre il sostegno nella fase di studio dei dati raccolti e della loro divulgazione. E lo scavo diviene inutile se non è seguito dallo studio e dalla comprensione di quanto prodotto. La ricerca in biblioteca, lo studio e l’elaborazione dei dati e soprattutto la loro pubblicazione, sono operazioni che necessariamente vengono svolte in una sede diversa da quella del cantiere. E normalmente non vengono pagate. Sebbene l’archeologia urbana sia una parte dignitosissima del nostro mestiere, sarebbe auspicabile non dover essere legati quasi esclusivamente alla costruzione di un’opera pubblica, per potere lavorare.

Se i committenti privati trovassero il modo di utilizzare l’intervento archeologico come veicolo pubblicitario, sia in termini di ritorno di immagine che economico (musealizzando l’opera antica e godendone dei ricavi, ad esempio), forse si potrebbe sostenere l’indagine archeologica nel suo insieme. Anche lo Stato dovrebbe intervenire meglio e in maggiore misura, riorganizzando l’intera gestione del patrimonio artistico, tagliando gli sprechi e valorizzando in termini di effettiva resa economica molti musei o aree archeologiche. L’indagine archeologica mirata, in aree quali ad esempio quelle di Pompei o dei Fori imperiali, o anche lo studio degli innumerevoli manufatti che giacciono nei magazzini, è attualmente affidata quasi esclusivamente alla “manovalanza gratuita” offerta dalle Università o dalle Scuole di Specializzazione.

URL di origine: http://www.terranews.it/news/2010/11/l%E2%80%99italia-non-e-un-paese-archeologi

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